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Due dischi gemelli

Era il 2012 quando gli Swans, gruppo storico capitanato ancora, a distanza di 31 anni dal debutto (Filth, del 1983), dall’irriducibile Michael Gira, hanno stupito il mondo lanciando il monumentale doppio album The Seer, un colosso di quasi due ore di durata, dopo essersi lasciati alle spalle il mediocre mestiere dimostrato sul dimenticabile ritorno My Father Will Guide Me Up a Rope to the Sky, precedente di ulteriori due anni. Il disco, che diluisce i suoi 119 minuti lungo appena 11 tracce dal minutaggio altalenante (dall’appena un minuto e 35 di The Wolf agli oltre 32 della magniloquente title track), segnava una vera e propria sintesi di tutto quello che gli Swans erano stati in grado di creare in quasi trent’anni di carriera: atmosfere oppressive, percussioni incessanti, ostinati senza via d’uscita, arpeggi ipnotici in grado di miscelare un folk apparentemente innocuo ad arie più apocalittiche che bucoliche o droni perforanti, il tutto condito a tratti dall’immancabile voce del solito Gira, ora grave e minacciosa, ora sguaiata, come se “posseduta”; un mantra più che un album, un’esperienza più che un dischetto.
Dunque dopo il deludente My Father Will Guide Me Up a Rope to the Sky l’ultima cosa che ci si poteva aspettare era un disco di questo spessore; il “segreto” è stato comporre perlopiù in tour (da cui è stato estratto un live album che ha finanziato la registrazione dell’album), lasciandosi guidare dall’istinto e poi sviluppare anche un semplice riff tramutandolo nella macchina infernale che gli Swans hanno saputo e a tratti sanno ancora essere: tale è la genesi del capolavoro che dà il nome al full length, un’interminabile jam di 32 minuti che, dopo un’intro di droni soffocanti si evolve pian piano verso un riff irriducibile e interminabile, ripetuto in modo ossessivo e ciclico, come appunto un rituale più che una comune jam session, salvo poi chiudersi in un blues malato e distorto, quasi a prendere in giro l’ascoltatore, stremato dall’esperienza.
Nonostante i molti punti di forza e per quanto sia un grande disco, The Seer non è un capolavoro: sono proprio alcuni suoi pregi a rivoltarglisi contro quando la resistenza dell’ascoltatore inizia a cedere di fronte ai pesantissimi minutaggi e alle ripetizioni senza sosta, con buona pace di Gira che, forse spinto dalla troppa voglia di stupire (e di sfinire), con qualche taglio qua e là ai minutaggi (specie nei due monoliti che chiudono il lavoro, A Piece of the Sky con i suoi nove minuti di intro di droni e The Apostate) sarebbe riuscito a fornire una prova anche più onesta di quanto gli Swans siano tornati e in forma. Non manca neanche una distruttiva “sinfonia” rumoristica che porta il nome beffardo di 93 Ave, B Blues.
Ora occorre spostarci di due anni più avanti rispetto a The Seer, quindi a poco più di una settimana fa, il 12 maggio: gli Swans pubblicano la loro ultima fatica in studio, denominata To Be Kind. La prima cosa che salta all’occhio (e indubbiamente stupisce) è che ancora una volta, a distanza di appena 24 mesi o giù di lì dal predecessore, ci troviamo di fronte a un doppio album, un nuovo megalite che questa volta supera anche le due ore, con i suoi 121 minuti. La formula riprende in tutto e per tutto quella di The Seer: brani composti perlopiù in tour, disco live per finanziare la registrazione, oltre due ore concentrate in appena 15 tracce (comunque quattro in più dell’album del 2012). To Be Kind è indubbiamente un’opera degli Swans: anche qui non si lesina sulle atmosfere opprimenti, un Gira più sciamano che cantante (un Jim Morrison decaduto, ulteriormente indemoniato e andato a male, ormai quasi radioattivo e nocivo, corrosivo nel solo proferire parola) e nei riff che appaiono interminabili quanto naturali e ipnotici. Entrambi i lavori inoltre sono strutturati “a sistema solare”, ossia con una lunghissima traccia posta come centro gravitazionale del disco (funzione assunta dalla title track di 32 minuti su The Seer e dalla possente Bring the Sun/Toussaint l’Ouverture su questo nuovo lavoro, pezzo che supera i 34 minuti di durata) e tutte le altre, più brevi, come se fossero piccoli “pianeti” che ruotano intorno a questi giganti nei giganti. Eppure, nonostante le numerose analogie, sarebbe fortemente errato dire che To Be Kind è una becera copia di The Seer o che si limita a riprendere la formula e farcirla un po’ per farla apparire diversa. In vero To Be Kind è un album fortemente complementare al suo predecessore, a tratti meno disumano e più equilibrato (sono più numerose e meglio distribuite tracce da 8-12 minuti, cosa che permette di mitigare pur non annullando il principale difetto di The Seer, di cui anche To Be Kind soffre per quanto meno) e soprattutto perde un po’ di nichilismo nel sound, che diventa meno oppressivo e più “rassegnato”.
In alcuni punti Gira sembra prendersi letteralmente gioco dell’ascoltatore, come nel singolo A Little God in My Hands (con Little Annie al microfono), un blues marcio alla Nick Cave dei primi tempi, oppure nell’arpeggio senza soluzione di continuità di Just a Little Boy, per non parlare della gigantesca Bring the Sun/Toussaint l’Ouverture, che a differenza della jam senza fine opta per una lunga sezione atmosferica centrale, dove il solo Gira sproloquia frasi come un sacerdote impazzito in un tempio abbandonato. L’atmosfera rispetto a The Seer sembra meno demoniaca ma solo in superficie: la calma è solo apparente. In verità il calo di brutalità (cosa peraltro neanche uniforme, basti ascoltare i primi secondi di Bring the Sun/Toussaint l’Ouverture per capire cosa intendo) lascia solo il posto ad una glaciale rassegnazione alla condizione umana, cosa sufficientemente chiara nella relativamente breve (“appena” cinque minuti) nenia di Some Things We Do, dove su una base ripetitiva e volutamente monocorde un asettico Gira enuncia in modo meccanico ed apatico alcune delle attività che un uomo svolge durante la sua vita (amare, mangiare, tagliare, odiare e così via). Non mancano sorprese più energiche come la quasi kingcrimsoniana Oxygen, martellante e sghemba nel suo incedere (che rimanda ad episodi di The Seer quali Mother of the World e Avatar) oppure la psichedelica e alienante title track. Entrambi i full length infine pendono sul ciglio di un burrone e corrono la pericolosa linea tra una ripetitività interessante e una fatta solo per riempire spazi sul dischi, linea che fortunatamente gli Swans non hanno ancora valicato, almeno per ora.
In definitiva due album gemelli in tutto e per tutto, che si compensano in atmosfere, feeling e mood ma tutto sommato simili, persino nelle (meravigliosamente curate) confezioni in cartonato. Per quanto lontani dai capolavori nichilisti della band quali Filth o Cop (di cui ormai si sentono solo lontanissimi e fortemente mitigati echi) o da quelli più “metafisici” come il discreto The Burning World o il fantastico White Light from the Mouth of Infinity (di cui invece ci sono richiami ben più insistenti, per quanto rielaborati), i “nuovi” Swans appaiono invece più vicini a quelli di Soundtracks for the Blind e Swans Are Dead, puntando a una sintesi perfetta di tutto quanto fatto finora, per quanto rielaborato in chiave moderna e nella nuova poetica di Mike Gira: il raggiungimento dell’estasi attraverso la musica (come dichiarato in recenti interviste), completamente contrapposto a quel senso di autoannullamento e annichilimento che tanto presente era nelle prime produzioni di questo apparentemente immortale act.


Quei live che cambiano la vita

È indubbio che nella maggior parte dei casi (specialmente ultimamente) un live non sia altro che una riproposizione, nel migliore dei casi più “energica”, dei pezzi registrati precedentemente in studio. Se proprio si è fortunati si può incappare in qualche minima variazione, come dei pezzi eseguiti in acustica o al limite qualche timido medley; eppure esistono dei live che sono stati in grado, per un motivo o per un altro, di lasciare il nome delle band che li hanno incisi scolpito con il proprio sudore nelle pietre miliari del rock. È proprio in questi live che ci addentreremo in questo trafiletto.

 

Deep Purple – Made in Japan (EMI, 1972)

Due post sotto scrivevo che “non esiste solo il Made in Japan”. Questo è vero, ma non significa che l’insuperabile prodotto del 1972 non resti la fatica dal vivo più significativa della discografia dei Deep Purple per non dire dell’hard rock tutto. Registrato durante il periodo di punta della Mark II (formazione composta da Ian Gillan al microfono, Ian Paice alle pelli, Roger Glover al basso, Ritchie Blackmore alla chitarra e Jon Lord all’organo), ossia dopo l’incisione del capolavoro Machine Head, il live cattura tutta la caratura e la potenza che il quintetto britannico poteva offrire dal vivo. Partendo da una distruttiva (anche visto l’anno, 1972) Highway Star, l’ensemble si mostra immediatamente sugli scudi con virtuosismi, improvvisazioni e vocalizzi all’estremo delle altezze raggiungibili da una voce maschile. Dilungandosi nei principali classici della band si giunge a momenti di alta improvvisazione (come i venti minuti della trascinante Space Truckin’) e di “giochi”, come il duello voce/chitarra tra Gillan e Blackmore. Non manca anche in The Mule il classico ed elegantissimo assolo del capace batterista Ian Paice.
Come scritto i famosi due post più sotto, il Made in Japan non è il live più “estremo” dei Deep Purple dal punto di vista della “nuda” improvvisazione, ma è sicuramente quello che meglio sintetizza una venatura “pop” (ossia la riproposizione delle tracce così come in studio) unita ad una voglia selvaggia di valicare quanto registrato in studio e gettarsi in sfuriate jam session. Un live che cambia davvero la vita.

 

Dire Straits – Alchemy (Vertigo, 1984)

Se in studio i Dire Straits non erano che una band che si teneva “al margine” della distruttiva rivoluzione punk di fine anni ’70, in sede live Knopfler e gruppo erano in grado di fornire prestazioni elevatissime ed elegantissime, con altissimi livelli romantici (come nella sognante opener Once Upon a Time in the West), riflessivi (le stupefacenti Private Investigation e Telegraph Road) ma anche più allegri e divertenti (Solid Rock o la divertente Two Young Lovers). Mark Knopfler appare molto sicuro di sé e delle sue doti e infatti, pur senza darsi al rock “duro”, produce uno spettacolo di altissima qualità; il live contiene estratti fino all’album Love Over Gold, di cui sono presenti tre quinti. Unico brano del debutto (nonché punto più alto dello show) è la celeberrima Sultans of Swing, qui riproposta in una versione dilatata di ben dieci minuti, dove trovano posto assoli intricati e velocissimi di Knopfler ma anche momenti di interazione con il pubblico. Come buttare giù un locale senza buttare giù niente.

 

Motörhead – No Sleep ‘Til Hammersmith (Bronze, 1981)

Qui invece in quanto a buttare giù le cose non si lesina affatto. Dopo una tripletta di album che avrebbe segnato un genere (Overkill, Bomber, Ace of Spades), i Motörhead di Lemmy Kilmister incidono a mani nude nella storia il proprio nome con questo devastante live, registrato all’Hammersmith di Londra. A differenza dei live di cui sopra, qui si punta non a dilatare, ma a stringere i pezzi come tra un’incudine e un incessante martello. Ed è così che si punta a velocizzare, percuotere, distorcere. Trovano posto in setlist pezzi dai tre album sopra citati ma anche dalla demo omonima (ovviamente velocizzati e distorti a dovere).
Mentre il basso di Lemmy lavora come una forsennata chitarra elettrica, “Philty Animal” Taylor provvede con il suo meccanico lavoro di doppia cassa a stabilire l’assetto ritmico più devastante del metal dei primi anni; su tutto questo, Eddy “Fast” Clarke innesta riff granitici e rapidissimi ed assoli da almanacco.
Picco del disco è la devastante prestazione in Overkill, incommentabile a dir poco. Povero colui che nel 1981 calò la puntina su questo prodotto demoniaco.

 

Led Zeppelin – How the West Was Won (Atlantic, 2003)

Probabilmente i più avrebbero immaginato di vedere il ben più noto “The Song Remains the Same”, ma trattandosi di fatto di quasi gli stessi pezzi e avendo una scaletta ben più ricca, trovo che questo How the West Was Won, datato 2003 ma registrato nel 1972, offra una panoramica più ricca di che macchina potessero essere i Led Zeppelin dal vivo.
Dopo una breve intro, si passa subito alla devastante Immigrant Song. Il live, articolato in ben tre cd, propone (quasi) tutti i migliori classici della band, in una forma smagliante all’epoca (sebbene il vocalist Robert Plant fosse già in un lieve calo). Tra tutte sono da segnalare davvero moltissimi pezzi, tra cui una struggente versione del lungo blues Since I’ve Been Lovin’ You, una commovente versione di Stairway to Heaven (con un Page sugli scudi in uno degli assoli più rappresentativi della sua carriera), ad esempio; un break acustico formato da tre ottimi pezzi (Going to California/That’s the Way/Bron-Yr-Aur Stomp); un medley della durata di ventitré (!) minuti partendo dalla potente Whole Lotta Love; ma in verità i due pezzi che fanno l’album sono la strabiliante versione di Dazed and Confused, che in un’apoteosi di jam, cavalcate e assoli spericolati di Page (in cui tra l’altro si esibisce anche con un curioso archetto, creando un suono contraddistintivo stupefacente) raggiunge la lunghezza di quasi mezz’ora (venticinque minuti per la precisione) e la martellante Moby Dick, venti minuti quasi tutti dedicati al distruttivo assolo di batteria di John “Bonzo” Bonham, che dimostra tutta l’enorme influenza sulle generazioni di drummer futuri (qualcuno ha detto Neil Peart?). Un triplo live da possedere gelosamente, una perla che mostra quanto la potenza dei Led Zeppelin sia nelle esibizioni dal vivo e non tra le quattro mura di uno studio di registrazione. È stata la prima volta infatti in cui ho potuto apprezzarli davvero.

 

The Who – Live at Leeds (Decca, 1970)

Definito da molti “l’unico live rock in grado di competere col Made in Japan”, il Live at Leeds dei The Who è sicuramente uno dei massimi capolavori dal vivo della sua epoca. Fatto di grandi improvvisazioni e di un repertorio d’eccezione della band, lo show tocca il suo apice totale nella lunghissima My Generation, che sfiora il quarto d’ora tra improvvisazioni di chitarra e lunghi assoli. In realtà ancora più consigliata è la versione Deluxe in due dischi, in cui è possibile reperire una versione completa dello storico concept album Tommy. Un live rock diretto ma mozzafiato, da avere ad ogni costo.

 

Emerson, Lake & Palmer – Welcome Back My Friends to the Show that Never Ends, Ladies & Gentlemen, Emerson Lake & Palmer (Manticore, 1974)

Questo triplo live della durata di oltre due ore è indubbiamente il manifesto di una generazione, quella appassionata a quel sound esagerato, esuberante, spesso autoindulgente e virtuoso che era in alcuni casi il progressive rock. Sicuramente (insieme agli Yes da Fragile in poi) gli Emerson, Lake & Palmer (ELP per gli amici) sono stati i massimi esponenti di questa insuperabile voglia di esagerare, di regalare ai fan concerti sempre più costosi e sfiancanti, per non dire anche lunghi. Al California Jam del 1974 gli ELP, headliner, registrarono questo impressionante concerto dove davvero i membri non si fanno pregare per mettere in evidenza tutta la propria prestanza tecnica. Dopo una Hoedown (da Trilogy) al fulmicotone e velocizzata all’impazzata e due estratti da Brain Salad Surgery (Jerusalem e Toccata), la voglia di esagerare del trio inizia a manifestarsi nella magniloquente Tarkus, suite in sei movimenti che se in studio sfiorava i venti minuti, qui arriva quasi a mezz’ora, in ventisette minuti fatti da improvvise citazioni classiche, sessioni quasi rumoristiche di sintetizzatori moog e un’improbabile citazione unplugged di Epitaph dei King Crimson (gruppo precedente di Lake, il bassista). Stessa sorte tocca al classico Take a Pebble che, dopo la consueta intro di pianoforte sorretta dal caldo cantato di Lake, si evolve in un dolce medley di ballate acustiche suonate e interpretate dal solo Lake (senza dubbio il momento più sobrio dell’intero show) e successivamente in nove selvaggi minuti di improvvisazioni al pianoforte, che toccano lidi jazz, classici e blues.
A chiudere troviamo infine anche una versione integrale dell’interminabile Karn Evil 9, che già in studio dura quasi mezz’ora netta. Qui, impreziosita da un incredibile assolo di batteria del giovanissimo Carl Palmer (appena ventiquattrenne), supera i trentacinque minuti in conclusione di uno dei live più pretenziosi della storia. Se avete amato quel periodo del rock, non può sfuggirvi. Se l’avete odiato, statene alla larga.

 

Hawkwind – Space Ritual (United Artists, 1973)

Last but not least, il live forse più acido del rock (anche se è un’affermazione davvero molto azzardata). Sicuramente però in questo Space Ritual gli Hawkwind di Dave Brock riuscirono a regalare ai fan un vero e proprio “viaggio cosmico”, con pezzi dilatati all’inverosimile, uso di sintetizzatori davvero molto diverso dal solito e soprattutto una setlist di tutto rispetto, in cui si possono vedere molti estratti dall’ultimo album prima dell’uscita del live, Doremi Fasol Latido, ma anche i migliori pezzi del precedente In Search of Space (tra cui una spettacolare versione di Master of the Universe, particolarmente violenta visto l’anno di esecuzione, ma d’altronde cosa aspettarsi con Lemmy al basso?), il tutto intervallati da momenti di speaking vocals, a rappresentare le varie “tappe” del viaggio cosmico.
Un viaggio lisergico nel meglio di una discografia troppo spesso dimenticata dai più. Dopo questo isterico capolavoro la band prenderà vie più quadrate e soft con l’ancora grande Hall of the Mountain Grill, l’ultimo prodotto in grado di bissare una qualità fin troppo alta.

 

In conclusione vorrei dire che gli album dal vivo piacciono a tutti, ma devono offrire NECESSARIAMENTE all’ascoltatore qualcosa in più di una mera riproposizione del pezzo studio, sennò è sufficiente prendere un best-of e il gioco è fatto. Inoltre mi scuso se qualcuno si sentirà offeso per l’assenza del suo live preferito (mi vengono in mente di getto Kick Out the Jams degli MC5 o Yessongs degli Yes).
Infine specifico che il post è riferito unicamente ai live rock, in quanto se dovessi anche addentrarmi nei campi del jazz e della classica, oltre a non avere le conoscenze culturali e teoriche, potrei dilungarmi davvero per tutta la vita.

Blaze.

 


Halford-Halford IV: Made of Metal

Artista: Halford

Album: Halford IV: Made of Metal

Genere: Heavy Metal

Anno di Pubblicazione: 2010

Etichetta: Metal God Entertainment

Si sa, a ogni progetto solista di qualche membro di una grande band, subito si cerca di trovare il motivo per cui questo progetto è nato, e si parte da mere speculazioni economiche fino a giungere a conclusioni quali “l’artista non poteva esprimere questa parte di sé con la propria band madre”. Il progetto Halford, una band vera e propria con il nome del noto vocalist dei Judas Priest e nata durante lo split del cantante dal gruppo (che l’aveva rimpiazzato con un dotatissimo Tim “Ripper” Owens), è stato mantenuto per più o meno entrambi i motivi. Da un lato era una piccola fonte di introiti assicurati, dall’altro rappresenta per il Metal God (questo il soprannome di Halford, sufficiente a far capire la portata che il suo stile ebbe sulle generazioni di vocalist metal a seguire) una piccola valvola di sfogo in cui compendiare tutte quelle raffazzonate e melodiche soluzioni metal anni ’80 che nei più recenti Judas Priest difficilmente trovano luogo (nel 2008 pubblicano il loro ultimo album, Nostradamus, un pretenzioso doppio concept album con magniloquenti inserti sinfonici). Così, assoldata una band di tutto rispetto (in cui spicca per classe e talento Roy Z, chitarrista che si era già messo in vista componendo quasi tutto il miglior materiale della produzione solista di Bruce Dickinson degli Iron Maiden) gli Halford lanciano alle stampe la loro ultima fatica, Made of Metal. Il disco, la cui cover presenta un’imbarazzante immagine di una futuristica automobile, è più o meno ciò che ci si aspettava: quattordici pezzi di ispirazione palesemente ottantiana, con riff melodici e riusciti, chorus convincenti e linee vocali accattivanti. Benché non ci siano veri e propri capolavori o picchi, Made of Metal riesce a tenersi su buoni livelli per tutta la sua durata senza particolari scivoloni e si presta molto bene a farsi ascoltare per intero. Nel lotto si evidenziano particolarmente la title track, non tanto per la sua qualità (anzi, risulta uno dei meno interessanti) quanto per il suo voler apparire “futuristica”, la quasi southern Till the Day I Die, la struggente ballata Twenty-Five Years Ago e, ultima ma non ultima, la pesantissima The Mower, traccia che sembra uscita direttamente dalle session di Painkiller e dove il Metal God sforza l’ugola fino alle vette di anni prima nel suo proverbiale scream, con ottimi risultati.
In realtà anche tutti gli altri pezzi meritano una piccola menzione ma, come già detto, la qualità è uniforme. Un buon album che vale i soldi dell’acquisto, pur non proponendo nulla di nuovo. Un disco di mestiere e di formula, ma utilizzata bene e in modo fresco anche se non originale.

Voto: 6/10

Blaze.


Non esiste solo il Made in Japan

Si torna a postare con dei consigli per gli acquisti. Il punto della questione è molto semplice: oggettivamente i Deep Purple sono stati una delle più grandi, se non la più grande, live band del pianeta; esibizioni infuocate, improvvisazioni all’estremo e grande istrionismo tanto del (o dei) vocalist quanto degli strumentisti erano all’ordine del giorno, dilatando la scaletta (apparentemente “povera” di pezzi) e offrendo ogni sera, nei limiti del possibile, uno spettacolo radicalmente nuovo (sebbene comunque molte improvvisazioni siano state “istituzionalizzate”). Il più famoso di questi live è indubbiamente il Made in Japan del 1972, che riscosse ampio successo già all’epoca ed è a oggi (non a torto) definito uno dei più grandi live della storia del rock, per non dire della musica in generale. Ma oggi non sono qui per parlarvi del Made in Japan, appunto perché se n’è già parlato abbastanza. In verità, sia con la formazione Mark II (quella formata da Ian Gillan al microfono, Ritchie Blackmore alla chitarra, Jon Lord alle tastiere, Roger Glover al basso e Ian Paice alla batteria), ossia quella del Made in Japan, sia con altre formazioni, i Deep Purple hanno rilasciato una serie lunghissima di live di altissimo livello, molti dei quali sono (per ora) disponibili in rete a prezzi irrisori. Qui ne esporremo pregi e difetti e un eventuale link per l’acquisto.

Made in Europe (1976, EMI)

Il Made in Europe è il primo testamento ufficiale della Mark III, funambolica lineup formata da David Coverdale alla voce, Glenn Hughes al basso e alla voce, Ritchie Blackmore alla chitarra, Jon Lord alle tastiere e Ian Paice alla batteria. I due membri aggiuntivi (dopo la dipartita di Gillan e Glover) hanno portato una gran ventata di aria fresca dal punto di vista compositivo nella band, scrivendo album di altissima qualità come Burn (1974, EMI) e Stormbringer (1975, EMI), dove progressivamente si mostrano sempre più esplicitamente forti venature soul e soprattutto funk, creando di fatto una band “nuova”. La nuova formazione non ha minimamente alterato l’impatto dal vivo della band: benché prodotto abbastanza male, Made in Europe riprende abbastanza fedelmente ciò che è capace di fare la Mk III: riff granitici (come nella devastante opener Burn), grandi improvvisazioni e ancora tanta voglia di divertire e divertirsi (in questo live ciò si palesa nella devastante versione di You Fool No One, della durata di ben 17 minuti, in cui c’è anche un ottimo assolo del batterista Ian Paice).
Come vedremo più avanti in questo post, non è certamente questo il live che rappresenta al meglio quella macchina da guerra che era la Mk III, ma nonostante questo il Made in Europe resta un tassello importante nella storia dei Deep Purple, perché dimostra che non era Ian Gillan a fare la grandezza della band, o meglio, non solo lui.

Prezzo: 4,73 € (http://www.amazon.it/Made-Europe-Deep-Purple/dp/B000006Y3X/ref=sr_1_1?s=music&ie=UTF8&qid=1348569168&sr=1-1)

Scandinavian Nights (1988, Connoisseur)

È vero, non era la Mark II l’unica formazione in cui i Deep Purple potevano produrre esibizioni di qualità ma probabilmente fu quella con cui ne uscirono quelle più devastanti in assoluto. Questa rara testimonianza, pubblicata nel 1988, ci mostra la formazione “storica” all’inizio del suo primo, vero tour, l’In Rock Tour, dedicato all’ultimo album prodotto allora, ossia proprio la pietra miliare In Rock. Nelle circa due ore che questi dischetti ci propongono veniamo letteralmente assaliti da fiumi di note, improvvisazioni al fulmicotone e sessioni solistiche all’ultimo sangue, spesso strutturate sotto forma di “duello” tra il funambolico tastierista Jon Lord e il chitarrista Ritchie Blackmore, in cui i due mettevano in mostra tutto ciò che sapevano fare, senza per questo scadere in eccessivi barocchismi e tecnicismi. Basti pensare alla opener del live, Wring that Neck, traccia strumentale che in studio dura circa quattro minuti. In una vera e propria cascata di assoli improvvisati, tra citazioni classiche e popolari (verso la fine Blackmore intona per scherzo il tema di Jingle Bells), i due instancabili solisti raggiungono la durata record di trentaquattro minuti, il tutto senza scadere nella minima noia oppure staticità. L’altra devastante cavalcata è senza dubbio Mandrake Root, che, dopo un’urlata performance di Gillan, si sviluppa in un assalto ritmico di Paice e Glover, supportato da assoli rabbiosi, spesso al limite del cacofonico, in ventotto minuti di pura furia rock. Una band in stato di grazia, forse la miglior performance mai registrata dal gruppo.

Prezzo: 17,73 € (http://www.amazon.it/Scandinavian-Nights-Edizione-Deep-Purple/dp/B000006Y47/ref=sr_1_1?s=music&ie=UTF8&qid=1348569921&sr=1-1)

California Jamming (1996, Purple)

Nel 1996 viene pubblicata la dimostrazione che la Mk III (formazione del Made in Europe qui sopra) può fare ben più di quanto dimostrato nel live ufficiale Made in Europe del 1976, e questa dimostrazione si chiama “California Jamming”, spettacolo che riprende la leggendaria performance del gruppo al California Jam del 1974, festival di importanza internazionale al quale parteciparono, tra gli altri, anche i Black Sabbath e gli Emerson, Lake & Palmer.
Headliner insieme agli ELP, i Deep Purple qui si esibiscono in uno spettacolo rabbioso, furioso, in cui si manifesta tutta la pesantezza del loro suono. Contrariamente al Made in Europe, qui lo spazio dedicato all’improvvisazione è ben più ampio, e va dai cantati a cappella di Glenn Hughes durante Mistreated agli scream pazzeschi dello stesso alla fine del pezzo, passando per una particolare Smoke on the Water della durata di 10 minuti o per una curiosa citazione di Lazy, fortunato pezzo dell’album Machine Head del 1972 all’inizio della lunghissima You Fool No One, alla fine della quale troviamo un’altra citazione, questa volta a The Mule (da Fireball, 1971). Ma tutto questo è detto senza considerare la vera “star” dello spettacolo, ossia la folgorante Space Truckin’, della durata totale di ben venticinque minuti, in cui si susseguono come sempre lunghi e forti assoli di Lord e Blackmore (in particolare il primo per la prima volta mostrerà un arsenale di tastiere che va oltre il “semplice” organo Hammond, e mostra per la prima volta un interesse per i sintetizzatori), alla fine della quale, in preda alla rabbia, Blackmore romperà ben tre chitarre e darà fuoco a un amplificatore.
Tutto questo spettacolo (il migliore del tour di Burn, indubbiamente), è registrato con una produzione coinvolgente e calda, che darà un’immagine della band completamente diversa rispetto al Made in Europe.

Prezzo: 4,14 € (http://www.amazon.it/California-Jamming-Live-1974-Purple/dp/B000024LX9)

Live in Paris 1975 (2001, Purple)

L’ultimo concerto con Ritchie Blackmore alla chitarra prima degli anni ’80. L’ultimo concerto della Mark III. Queste le due frasi se volessimo compendiare il motivo più curioso per cui questo Live in Paris 1975 (sottotitolato sarcasticamente “la dernière séance”, l’ultima seduta spiritica) fu buttato alle stampe. Miglior live del tour di Stormbringer (e forse di tutta la Mk III insieme al California Jamming), la band si dimostra in uno stato di grazia totale, proponendo tre grandi pezzi da Stormbringer (la title track, The Gypsy e Lady Double Dealer) e ancora una volta lunghe versioni dilatate di You Fool No One e Space Truckin’, tutte arricchite di richiami e citazioni al precedente periodo della band (in particolare in questa Space Truckin’ troviamo un richiamo a un certo brano del 1970…). Grande sorpresa di questo concerto è però il finale, dove troviamo un’infuocatissima Highway Star, in una delle poche testimonianze live di questa formazione; il pezzo, eseguito a due voci e soprattutto supportato dalle migliori partiture strumentali di sempre (anche migliori di quelle del Made in Japan) con grandi improvvisazioni e un’intesa tra Lord e Blackmore che nonostante l’abbandono di quest’ultimo perdurerà fino alla fine dei tempi. Da avere. Peccato per il prezzo, parecchio alto.

Prezzo: 26,11 € (http://www.amazon.it/Live-Paris-1975-Deep-Purple/dp/B00013PHCW)

Live in Japan (1993, EMI)

Cofanetto di ben tre cd, Live in Japan, pubblicato nel 1993, mostra il “resto” del minitour giapponese del 1972 che portò alla genesi del live più importante del gruppo, il Made in Japan appunto. I tre cd, che contengono tre setlist quasi uguali tra di loro, presentano performance rispettivamente da due serate di Osaka e da una a Tokyo. Una grandissima testimonianza di quello che la Mk II era capace, per il prezzo irrisorio dovrebbe essere negli scaffali di qualsiasi adoratore del Profondo Viola. In particolare da segnalare l’ultima serata a Tokyo, dove forse la band dà il meglio di sé.

Prezzo: 7,78 € (http://www.amazon.it/Live-Japan-Deep-Purple/dp/B000005RPX/ref=sr_1_1?s=music&ie=UTF8&qid=1348571927&sr=1-1)

Space Vol. 1 & 2 (Live in Aachen) (Purple, 2004)

La carrellata si chiude con il pezzo forse più “raro” nonché l’esibizione più grezza della Mk II. Un diamante non lavorato, sia in fase di esibizione sia in quella di missaggio, questo Live in Aachen 1970. Apparentemente un semplice EP di quattro tracce (Wring that Neck, Black Night, Paint It Black e Mandrake Root), in realtà il live è molto di più: è un’esibizione rabbiosa, cruda, senza mezzi termini. Nei venti minuti della opener Lord e Blackmore si rincorrono in un esplosivo crescendo solistico, mentre ancora più esplosiva è l’oltre mezz’ora di Mandrake Root. Rispetto all’altro live del 1970 presentato qui, la produzione non è né perfetta né pulita; ma in questo caso sono proprio le imperfezioni a fare la differenza. Una perla rara, un live che puzza ancora del sudore lasciato sugli strumenti.

Prezzo: 20,41 € (http://www.amazon.it/Live-Aachen-1970-Deep-Purple/dp/B000CCB488)

PS: tutti i link sono presi da Amazon.it, l’unico store su cui posso dare affidabilità 100%.


Edge of Sanity-Cryptic

Artista: Edge of Sanity

Album: Cryptic

Genere: Death Metal

Anno di Pubblicazione: 1997

Etichetta: Black Mark

Per qualche strana ragione (probabilmente il troppo carisma del personaggio in questione) si tende a pensare che gli Edge of Sanity, storico gruppo di death metal melodico/progressivo svedese, fossero guidati da un’unica mente, ossia il leader/fondatore Dan Swanö. In realtà dietro il brillante songwriting che ha contraddistinto il gruppo sin dal suo secondo album, Unorthodox (il primo Nothing But Death Remains era più un death grezzo ed anonimo) si possono scorgere due anime musicali ben differenti, ma sintetizzate in quei lavori in modo perfetto ed armonico: sto parlando dello stesso Swanö, anima progressiva, melodica, morbida, e del chitarrista Andreas Axelsson, mente molto più estrema, improntata ad un death/thrash di vecchia scuola ed anche al black metal. Da The Spectral Sorrows in poi in particolare (Unorthodox è un po’ un lavoro sui generis della band), queste due anime si vedevano in perfetto connubio in pezzi come Darkday, dal riffing gelido ma contemporaneamente melodico, in Jesus Cries, in precario bilico fra death e black metal, Of Darksome Origin di Purgatory Afterglow ed anche dalla monumentale Crimson, ad oggi capolavoro del gruppo. Anche dal punto di vista vocale spesso lo stesso Axelsson interveniva con dosi di gelido scream, contrapposto al gutturale growl di Swanö. Dal full-length successivo al capolavoro, ossia Infernal del 1997, tuttavia, qualche cambiamento inizia a sentirsi. Le due anime sono ancora ben presenti ai loro posti, ma stavolta non appaiono più sintetizzate in modo perfetto, ma molto più nette e distinte. Ed è così che Axelsson inizia a cantare addirittura da solo in alcuni pezzi (Helter Skelter, ad esempio), ma anche nei pezzi dove è presente la sua mano si sentono notevoli differenze dove è il solo Swanö a comporre. La situazione diventa via via insostenibile, Swanö è sempre più assorbito dai suoi side-project e trova poca voglia di dedicarsi al gruppo, ormai sempre più sotto l’egida di Axelsson. Dopo un periodo abbastanza travagliato, Swanö viene allontanato dalla sua stessa creatura (e mantenuto solo come produttore) e al suo posto viene assunto un “nuovo” vocalist, ossia Robert Karlsson (già noto al lavoro negli schizoidi Pan.Thy.Monium), dallo stile meno gutturale e profondo che nei Pan.Thy.Monium, ma anzi, molto più gradevole e dinamico. Il preambolo potrebbe apparire eccessivamente lungo, ma è assolutamente necessario per capire quale sia la stella sotto cui nasce questo lavoro. Senza Dan Swanö, quindi, ora l’influenza musicale resta solo quella di Axelsson. Bisogna dire che il buon chitarrista però non si approfitta della situazione per stravolgere il sound della band e renderla, per fare un esempio, un gruppo black metal. In realtà quest’album è sottovalutato, molto: Axelsson cerca di reinterpretare in chiave meno quadrata e più “pestilente” la melodia tipica degli Edge of Sanity, e il risultato è un album particolare, dal riffing mai troppo asettico senza per questo risultare stucchevole. Anche le sezioni quasi hard rock tipiche del gruppo svedese qui vengono reinterpretate in una chiave molto meno cristallina e regolare (basti pensare all’assolo sgraziato posto alla fine della seconda traccia, Uncontroll Me). La durata è anche priva di eccessive pretese: gli Edge of Sanity di Andreas Axelsson (come anche quelli di Dan Swanö, in verità) hanno ben capito che il formato cd non obbliga nessuno a produrre necessariamente dischi di un’ora, spesso viziati da gravi filler. Infatti l’album scorre tutto con grande qualità nei suoi trentacinque minuti di durata. In sostanza degli Edge of Sanity nuovi, rivisitati ma non per questo non interessanti o degni di un ascolto. Lo stesso Swanö compie tra l’altro un eccellente lavoro nelle vesti di produttore: intuendo il cambio di rotta degli ex-compagni, con estrema professionalità (e probabilmente con l’assistenza dello stesso Axelsson) è riuscito a riprodurre un sound meno raffinato, più grezzo e conseguentemente più potente. Un prodotto riuscito ma snobbato per ragioni arcane. Paragonabile (fatti i dovuti distinguo) a Burn dei Deep Purple o a The X Factor degli Iron Maiden (tutti album validi “penalizzati” dall’assenza di membri storici quali Ian Gillan, Roger Glover e Bruce Dickinson).

Voto: 7/10

Blaze.


Rush-Headlong Flight (singolo)

Inizialmente previsto alla fine del 2011, poi slittato in primavera 2012 e infine fissato per il 12 giugno 2012 (che, a rigor di precisione, è ancora primavera, ma è un po’ tardi per chi scrive, giacché l’attesa inizia a farsi dura), Clockwork Angels dei Rush inizia a mostrare gli artigli. La bellezza del primo giugno 2010 venivano rilasciati i primi due singoli dell’album in un unico EP, Caravan/BU2B. I due pezzi mostravano un gruppo in grandissima forma sia dal punto di vista performativo sia da quello compositivo (con tre anni a disposizione dall’ultimo Snakes&Arrows da un gruppo di tale livello comunque è plausibilissimo aspettarselo); il gusto dei brani lasciava trasparire un album più pesante dell’orientaleggiante predecessore, più aggressivo e meno acustico. Ieri 18 aprile 2012 finalmente il gruppo ha messo in circolazione, in streaming, il loro ultimo singolo, intitolato Headlong Flight. Inizialmente pensato come un brano strumentale, il pezzo si dilunga in tutti i suoi sette minuti e mezzo di durata tra momenti più pesanti ed altri più tranquilli. In ogni caso la “durezza” dell’inizio di BU2B è ormai solo un lontano ricordo: qui ce n’è addirittura di più! Un inizio definito da molti una mezza citazione a Bastille Day, una strofa ben ispirata, un ritornello abbastanza sopra le righe. Il pezzo propone un riffing dal gusto molto moderno e che ormai poco ha a che fare con le origini zeppeliniane del gruppo: non è una novità per nessuno che i Rush abbiano raggiunto da tempo una piena maturità stilistica. Da segnalare un break di batteria al centro ultratecnico da parte del portentoso batterista Neil Peart. Se Alex Lifeson non ha mantenuto le promesse circa il minutaggio del disco (prometteva una title track “molto lunga”, quando non va oltre i sette minuti e mezzo), quando Neil Peart parlava di “dare il mio massimo sforzo come batterista e come autore” evidentemente faceva sul serio.
Anche dal punto di vista vocale Geddy Lee è fautore di una performance impressionante. Il timbro resta invariato dal 1980. La produzione risulta essere leggermente più sporca di quella del precedente Snakes&Arrows ma in compenso estremamente più potente. La chitarra ha un suono molto “metallico”, le devastanti pattern di batteria hanno un suono secco e rapido, il basso è in grandissimo rilievo. Forse i Rush si stanno spianando il terreno verso il miglior album del 2012:

Headlong Flight streaming 


Soppressione link download

È anche a nome dell’altro admin, Paul, che annunciamo che Rockstadium rimuoverà tutti i link di download. Non è assolutamente per timori di ripercussioni o cose così, è che da quando l’FBI ha dato il colpo di grazia a Megaupload, tutti i siti hosting nei dintorni si sono regolati di conseguenza e quindi la maggior parte dei siti è diventata molto difficile da reperire. Per il download dei file ormai i mezzi più consigliati sono youtube (sperando duri) e client Torrent. Se anche i siti Torrent si ripopoleranno a dovere, ricominceremo ad inserire link, stavolta ai relativi torrent.
Finché la situazione resterà così (quindi qualche mese ad essere ottimisti), Rockstadium posterà (anche se, come avete potuto notare, sempre più di rado) perlopiù per amore dell’informazione e del consiglio, poi lasceremo alla curiosità  reperire il disco come meglio preferisce, con acquisto a scatola chiusa o scaricandolo, per vie legali o illegali.

Blaze.


Koop-Waltz for Koop

Artista: Koop

Album: Waltz for Koop

Genere: Elettronica/Jazz

Anno di Pubblicazione: 2001

Etichetta: Super Records

Che jazz ed elettronica non fossero più nemici, si sa ormai da diversi decenni. In molti casi (come in quello del francese St. Germain) l’interazione fra il primo e la seconda è stato totale, mentre in altri casi si parla soltanto di semplici venature. La musica di questo duo di dj, i Koop, invece, suona tutto fuorché elettronica, anzi, se non ci fosse detto esplicitamente, scambieremmo questo lavoro per uno di jazz di un cinquantennio fa. Evidentemente puristi del genere, i Koop producono circa quaranta minuti di musica rilassante e rilassata, che ricerca prevalentemente la soluzione del downtempo e che sarebbe perfetta come sottofondo in un qualsiasi club. Dal punto di vista musicale il duo si snoda su atmosfere sempre diverse con svariati ospiti al microfono in un disco che appare un vero e proprio tributo elettronico al jazz che fu.

Voto: 7/10

Blaze.


Franco Battiato-Pollution

Artista: Franco Battiato

Album: Pollution

Genere: Avantgarde/Progressive Rock

Anno di Pubblicazione: 1973

Etichetta: Bla Bla

Sicuramente la maggior parte degli ascoltatori al nome di Franco Battiato penseranno a un raffinato cantautore, mente di meravigliosi arrangiamenti per altrettanto meravigliose liriche (il suo disco più fortunato e noto è indubbiamente La Voce del Padrone, del 1981, che donò a Battiato il successo). Eppure, guardando qualche anno addietro, quando il siciliano era ancora uno sconosciuto, troviamo dei lavori dalla forte componente sperimentale (e di forza, essendo quegli gli anni ’70, fu accorpato nell’enorme ondata progressive che stava invadendo l’Italia quegli anni), dove Battiato crea una sorta di “synthpop ante litteram” (ciò farebbe pensare principalmente ai Kraftwerk, ma in realtà Battiato si terrà sempre su livelli molto personali in questo senso, dovendo forse più ai corrieri cosmici quali Klaus Schulze o i Tangerine Dream che a loro), unendo la classica canzone all’italiana (sebbene da lui sempre stravolta anche negli schemi e soprattutto nei testi) e una forsennata sperimentazione elettronica (grazie anche al sintetizzatore VCS3, posseduto in Italia solo dal siciliano e dai compaesani Area). Se l’esempio più fulgido di questo vero e proprio synthpop può udirsi nel debutto dell’artista, il bellissimo Fetus, in ogni caso è con questo Pollution che Battiato vira in modo sempre più deciso lontano dal formato canzone, verso arrangiamenti sempre più complessi e testi sempre più provocatori (per poi sfociare nella metafisica di Sulle Corde di Aries lo stesso anno).
Basti pensare che il disco si apre con un valzer campionato, sul quale si posa, spettrale, la voce dell’allora non ancora cantautore di definizione, per poi lasciare a una serie di divagazioni tastieristiche che rivelano comunque l’attaccamento viscerale di Battiato alla kosmische music. Andando avanti troviamo tracce cantate e suonate al contrario (Areknamess), lunghe e dilatate tracce di atmosfera (come ad esempio Beta o la title track). Il brano, però, dove si visibilizza meglio la coniugazione di canzone pop/rock all’italiana e la sperimentazione elettronica, corrisponde al nome di Plancton, forse il capolavoro del disco. Un ispiratissimo arpeggio di chitarra si posa su un letto di sintetizzatori creando in tutto e per tutto un forte isolamento dell’ascoltatore, che si trova sempre più “immerso” nel fondo degli oceani dove risiede il protagonista del pezzo, ossia del plancton. Ed è dopo poco che Battiato canta, con un tono freddo e distaccato, la descrizione della vita di questo plancton in prima persona. Dopo poche altre divagazioni, quello che era stato comunque un brano, al di là degli arrangiamenti, “tradizionale”, sfocia in assoli di synth votati interamente ai corrieri tedeschi, marcando ancora questo forte dualismo che guidava il Battiato di allora.
Al giorno d’oggi  il cantautore (come si può vedere, ad esempio, nell’ottimo Dieci Stratagemmi), è stato in grado di coniugare del tutto la sua anima sperimentale con la sua forma canzone, anche se va detto che mentre oggi un brano infarcito di sintetizzatori in Italia non stupisce nessuno (forse stupirebbe il contrario), nel 1973 non era così.

Voto: 8/10

Blaze.


Una carrellata di progressive italiano

Luoghi comuni tendenzialmente estremisti tendono a definire “capolavoro” qualsiasi prodotto progressive rock sia uscito dalla nostra bella penisola, creando una sorta di “mito” di una scena che, sebbene non sia stata certamente tanto leggendaria, ha prodotto i suoi capolavori.
Altrettanti luoghi comuni invece vogliono la corrente progressiva italiana come un’ondata interamente derivativa, priva di qualsiasi spunto artistico e limitata ad una ruffiana riproposizione delle idee provenienti dalla Gran Bretagna. Questo viaggio nella nostra cultura e tradizione progressiva vi proporrà, attraverso un album per “categoria”, una prospettiva panoramica del meglio che il nostro Belpaese poteva offrire durante i migliori anni del progressive.

Banco del Mutuo Soccorso – Io Sono Nato Libero (Ricordi, 1973)

Il Banco del Mutuo Soccorso, di gran lunga (insieme a Premiata Forneria Marconi e Le Orme) la formazione di progressive italiano più famosa nel mondo, rappresenta uno degli apici della nostra tradizione degli anni ’70 e la loro musica è facilmente riconducibile in molti suoi punti a Yes ed Emerson, Lake & Palmer (dunque rappresenterebbe la fazione più filo-anglofila del nostro “viaggio”); nondimeno, il Banco inserisce nelle influenze britanniche spunti personali pregiatissimi, un’inventiva e un’audacia fuori dal comune, ciò che permette al gruppo di essere annoverato a tutti gli effetti tra i grandi del rock progressivo. In particolare l’album in questione, Io Sono Nato Libero, è quello più impegnato di tutta la discografia sia a livello strumentale (l’accoppiata Nocenzi alle tastiere è al massimo dell’affiatamento) sia a livello lirico e vocale, con un Francesco di Giacomo in stato di grazia. I testi (basti pensare a Canto Nomade per un Prigioniero Politico, capolavoro dai testi dedicati al golpe in Cile da più di un quarto d’ora, oppure a Dopo… Niente è più lo Stesso) sono politicamente e socialmente impegnati e offrono ancora più pathos alla migliore performance in studio del gruppo. Trovano spazio ancora le influenze post-psichedeliche che erano trascinate sin dal precedente Darwin! (nella meravigliosa Miserere alla Storia) nella complessa La Città Sottile e non ci si lascia scappare neanche una placida ballata, Non Mi Rompete, in realtà più impegnata e meno spensierata di quanto si potrebbe immaginare. Sicuramente un capolavoro del progressive italiano, e dei più (fortunatamente) riconosciuti.

Metamorfosi – Inferno (Vedette, 1973)

Cosa rappresenta di più la cultura italiana del sommo poeta Dante Alighieri e del suo capolavoro letterario? È appunto in questo che i romani Metamorfosi mostrano fieramente tutta la loro italianità. L’Inferno dantesco è messo in musica su una strumentazione che ha il suo perno maggiore nelle tastiere (del virtuoso Enrico Oliveri) che pur strizzando fortemente l’occhio ai soliti noti (specialmente agli ELP appunto per la predominanza di hammond, piano e moog) creano in realtà uno stile più intimo e personale, che diventa tutt’uno con la tematica trattata e dunque inscindibile da questa, creando di fatto un lavoro molto personale e nostrano. I testi ripercorrono nella classica struttura a bolge tutta la cantica dantesca, pur “modernizzandola” e ponendola al passo coi tempi (inserendo problemi attuali tra i vari puniti, quali razzisti o spacciatori di droga). A livello vocale Jimmy Spitaleri offre una performance teatrale e tonante (che ha il suo apice nella rabbrividente Lucifero); di fatto comunque i testi non sono eccezionali come avrebbero potuto e anzi, spesso crollano nel luogo comune più totale, sebbene si tengano su buoni livelli a livello medio. Con una formazione rinnovata nel 2004 i Metamorfosi hanno dato un sequel a questo capolavoro, ossia l’ottimo Paradiso il quale, sebbene abbia la sua qualità, non raggiunge il livello del predecessore.

Franco Battiato – Sulle Corde di Aries (Bla Bla, 1973)

Sebbene non tradizionalmente “progressive”, anche Franco Battiato negli anni ’70 contribuì notevolmente alla scena, attingendo però non alla scena inglese ma a quella tedesca, producendo dischi votati interamente all’elettronica. Dopo i precedenti Fetus e Pollution, dove la componente provocatoria era sempre presente, nel seguente Sulle Corde di Aries i toni diventano più colti, alti, rarefatti. Temi nostalgici si innestano nella lunga Sequenze e Frequenze, dove Battiato accenna alla sua infanzia per poi lasciare spazio ad una duratura divagazione strumentale che porta il brano alla conclusione. Che siano quelle del nostro cervello le “frequenze” del titolo e quelle dei nostri ricordi le “sequenze”? In Aries, la title track per così dire, una traccia strumentale a sfondo jazzy, mantiene intatta quest’aria tranquilla e quasi metafisica. In Aria di Rivoluzione si accenna ancora una volta a temi guerreschi e provocatori, ma il tutto in modo quasi “superiore”, come se Battiato si fosse erto e avesse raccontato la guerra da un punto di vista oggettivo, asettico, privo di qualsiasi “rabbia”. Il coro in tedesco riporta alla mente l’incipit della coeva Luglio, Agosto, Settembre (nero). La seguente Da Oriente a Occidente non mostra cambiamenti nel mood e mostra un Battiato ancora una volta intento ad usare il suo “giocattolo” preferito, il sintetizzatore VCS3. Un disco da riscoprire, al di là della seguente tradizione pop di Battiato, in ogni caso anch’essa di grande qualità.

Area – Crac! (Cramps, 1975)

Partiamo dal presupposto che Crac! non è il miglior disco inciso dall’ensemble che vantava tra le sue fila Demetrio Stratos; di gran lunga, tuttavia, è quello a cui l’etichetta “rock progressivo”, da sempre stretta agli Area, calza meglio.
Indubbiamente un grandissimo lavoro, con sempre le sue strettissime influenze jazz (anzi, l’inclinazione jazz come sempre è evidentissima e spesso anche più di quella rock) rivela la sua maggiore concessione al rock e al prog in tracce come L’Elefante Bianco e la particolarissima La Mela di Odessa, dove Stratos si esibisce in un parlato quasi “rap”.
Il lato più sperimentale del gruppo emerge nel resto delle tracce, a partire dalla lussureggiante Megalopoli, una lunga strumentale jazz dove Stratos (che si esibisce in proibitivi vocalizzi in scat singing verso note sovracute) e il resto della band portano l’ascoltatore ad immaginarsi un vero e proprio giro nel caos di una metropoli in piena sera, con annessi e connessi; si tratta di un vero capolavoro.
Sulla stessa scia ma meno alla mano è la successiva Nervi Scoperti. È con Gioia e Rivoluzione, tra le tracce più famose del gruppo, che rivive l’anima  pop del gruppo, un vero e proprio inno alla musica e all’attività, una traccia allegra ma in realtà molto decisa e “combattuta”. In sostanza, il più prog e accessibile tra i dischi della band italiana, consigliatissimo a tutti.

Museo Rosenbach – Zarathustra (Ricordi, 1973)

Zarathustra del Museo Rosenbach è indubbiamente una delle più belle, se non la più bella, pagine del progressive nostrano. Influenze jazz, classiche e hard rock si fondono su un sostrato culturale alto ed elevato, ispirato alla filosofia dell’Oltreuomo di Friedrich Nietzsche; tutto l’album nei suoi quaranta minuti si dilunga in quattro tracce (di cui una portentosa suite omonima di oltre venti minuti, che potrebbe essere definita un po’ il manifesto di quanto di buono la nostra penisola abbia saputo produrre) e segue l’iter concettuale del capolavoro nietzschiano, Così Parlò Zarathustra. I testi, tra i più belli della scena, sono di alta caratura filosofica e riassumono elegantemente ma senza ovvietà la dottrina dell’uomo che deve superare sé stesso. L’ignoranza della critica ha stroncato la carriera del Museo Rosenbach: legati ancora ai travisamenti degli scritti del filosofo tedesco secondo i quali il famoso Oltreuomo non fosse altro che Hitler, ossia un condottiero “puro” venuto per liberare la Germania, e a causa dell’immagine di un busto di Mussolini posto nell’immenso patchwork che forma la bellissima cover dell’album, i critici (e la RAI, la televisione italiana) hanno ostracizzato in qualsiasi modo a loro possibile l’ascesa di questo validissimo ensemble adducendo come ragione la loro presunta tendenza all’estrema destra, tendenza alla quale il popolo italiano, appena uscito da un distruttivo ventennio fascista, era fin troppo sensibile.
Ancora una volta l’ignoranza globale ha piegato qualcosa che poteva essere grande. E il Museo Rosenbach non avrebbe certo sfigurato accanto al Banco, alla PFM o a Le Orme, anzi, forse questi tre gruppi avrebbero avuto da temere. Nondimeno, non si sa che piega avrebbe preso il gruppo e non si sa se sarebbe riuscito a bissare o almeno a replicare la qualità di questo capolavoro.

Alan Sorrenti – Aria (Harvest, 1972)

Non poteva mancare, benché già descritto poco tempo fa, il debutto di Alan Sorrenti, Aria. Come già scritto nel post addietro, la magnificente suite che dà il titolo all’album è uno dei prodotti più spontanei e significativi del progressive italiano. Organo hammond in piccolissima dose, interessanti scale orientali su chitarre prevalentemente acustiche e soprattutto un’enorme importanza data alla voce, ciò che rende non ridicolo il paragone di Sorrenti ad altri mostri sacri della vocalità progressive, soprattutto Peter Hammill (probabilmente la prima pietra di paragone per il partenopeo).
Oltre alla grandissima suite, trovano spazio anche una placida ballata acustica tuttora presente nelle scalette del cantautore insieme all’imbarazzante carriera dance, Vorrei Incontrarti, ed altre due sperimentali tracce progressive. Tra i lavori più raffinati e meno ovvi che l’Italia potesse offrire nel 1972.

Il Balletto di Bronzo – Ys (Polydor, 1972)

Insieme agli Jacula e ai Goblin, Il Balletto di Bronzo è il massimo esponente del progressive rock a sfondo gotico in Italia. Abbiamo scelto lui a differenza degli altri due perché sono quelli dall’approccio più progressivo, lontano dalle necessità cinematografiche dei secondi o dalle evocazioni spiritico-metafisiche dei primi. Dopo un primo album ancora debitore al tardo beat italiano e con qualche strizzata d’occhio alla psichedelia dei secondi Pink Floyd (Sirio 2222) e con l’arrivo del virtuosissimo Gianni Leone alle tastiere, prende forma Ys, il capolavoro del gruppo. Voci spettrali aprono la lunga Introduzione (oltre un quarto d’ora di musica) per poi lasciare spazio già agli intrepidi hammond di Leone. Le tastiere impiegate sono moltissime (hammond, moog, spinetta, celesta, piano elettrico) e sono scelte con massima cura in un prodotto rifinito nei minimi particolari. È difficile credere che al concepimento di un tale lavoro Leone (che ha scritto praticamente tutta l’opera da solo) fosse poco più che diciottenne.
Il duro chitarrista Lino Ajello, leggermente adombrato da un tale tastierista, comunque si evolve in rocciosissimi riff hard rock, oppure a volte crea dei notevoli effetti tremolo d’atmosfera per supportare in modo “spettrale” le rapidissime ritmiche di Leone, tra l’altro sostenuto da un Giancarlo Stinga dietro le pelli in grado di suonare davvero velocemente. La voce di Leone (oltre a suonare è anche vocalist) è acidula e acuta e per questo può risultare sgradita ai più, ma in sostanza non fa che aumentare il senso di asprezza dato dall’oscurità generale del lavoro. Ys parla dell’ultimo uomo superstite sulla terra in cerca dei suoi simili e male indirizzato da una misteriosa voce verso degli incontri che via via gli saranno fatali.

Osanna – Palepoli (Fonit Cetra, 1973)

Gli Osanna hanno l’italianissimo merito di aver fuso sonorità prettamente hard rock con il grande folklore partenopeo. Già esaurientemente descritto da Paolo nel post apposito, Palepoli si impone come il massimo capolavoro della personalità italiana in tutto il panorama progressivo italiano. Il disco si articola in due lunghi movimenti della durata di circa venti minuti l’uno, Oro Caldo e Animale Senza Respiro. La prima, forse il pezzo migliore del lotto, si articola tra dirompenti riff hard rock (di grandissima fattura) e passaggi più folk, con anche l’ausilio del flauto e del sax. Il concept mostra tutta la realtà di una comunità napoletana disillusa, ingannata da una politica falsa e bugiarda e in cerca di rivalsa. L’urlo disperato di chi consiglia di fuggire (fuj’a chist paes-eh!) è anche il fondamento di questo ispiratissimo album. Animale Senza Respiro, meno spontanea ma più strutturata, mostra anche colte influenze jazz e conclude con i suoi ventuno minuti al meglio un album che si rivela una delle pietre angolari della musica italiana degli anni ’70, pur senza successo.

Buon Vecchio Charlie – Buon Vecchio Charlie (Melos, 1990)

Sempre per la serie “carriere imbarazzanti”, anche questo Buon Vecchio Charlie, anche a causa della sua ottima qualità, merita di comparire in questo lungo viaggio. Cantante/chitarrista ritmico della formazione è infatti Richard Benson, famoso ormai perlopiù per l’essere diventato un ridicolo zimbello con concerti pagati in “natura” e per aforismi quanto meno imbarazzanti. In verità il debutto del Buon Vecchio Charlie non avrebbe sfigurato più di tanto accanto ai grandi album del rock progressivo italiano. Influenze classiche, folk, pop, jazz e hard rock si fondono nella prima traccia, la favolosa Venite Giù al Fiume. Esattamente come la cover, allegra ma demoniaca, il testo si sviluppa come un “battesimo rovesciato”, dove il battezzando cade nel fiume per non essere più recuperato, andando incontro a morte. Dopo una scialba ballata pop, Evviva la Contea di Lane, si passa ad un altro grande brano, la suite All’Uomo che Raccoglie i Cartoni, una dedica precisa a chi è povero e debole, agli infimi dimenticati dalla società. In toto, il Buon Vecchio Charlie si è rivelato un gruppo affabile che avrebbe meritato di incidere qualcosa in più rispetto a questo piccolo, ma comunque ottimo debutto. Nonostante sia stato pubblicato solo nel 1990, il materiale fu registrato nel lontano 1972.

Minstrel – Faust (Kaliphonia Records, 2000)

Questa invece è la faccia del progressive italiano al giorno d’oggi, o meglio, ne è un esempio. Dopo il 1976, vera e propria data di morte del rock progressivo, in realtà il genere in Italia ha continuato invitto a proliferare in una stretta cerchia di appassionati e, come cult genre, resiste fino ai giorni nostri, pronto ad offrirci ancora ottimi dischi.
Uno dei migliori degli ultimi anni è, appunto, Faust dei Minstrel, album che tenta un approccio quanto più teatrale e lirico possibile al progressive (ciò che è anche dovuto alla preparazione fondamentalmente classica del tenore e tastierista Mauro Ghilardini). La voce di Ghilardini, tenorile ma ben adatta anche al rock, si presta al ruolo del protagonista, Faust, ma sono presenti altri ospiti per ricoprire altri ruoli, tra cui la graffiante voce di Davide Ferrari nel ruolo di Mefistofele.
Il tutto è musicalmente adagiato su un’alternanza di calme ballate e di epici pezzi hard rock (tra cui si distingue Mefistofele, forse il miglior pezzo del platter). Sicuramente l’introduzione, ben quattro minuti di pura recitazione parlata, potrebbe risultare indigesta, ma tutto sommato musicalmente i Minstrel rivelano che il prog italiano è ancora ben in vita e gode di piena salute.

Opus Avantra – Introspezione (Trident, 1974)

Concludiamo la nostra carrellata con un rappresentante (forse il massimo) del lato avanguardistico della nostra scena progressiva italiana. Gli Opus Avantra, nati sotto la guida ispiratrice del pensatore Giorgio Bisotto (dunque riallacciandosi ad una serie di gruppi ispirati da dei non-musicisti, basti pensare ai celeberrimi Velvet Underground “di” Andy Warhol oppure ai nostrani Le Stelle di Mario Schifano), s0no un progetto di musica all’avanguardia portato avanti dal pianista di formazione classica Alfredo Tisocco e dalla cantante Donella del Monaco, nipote del celebre tenore Mario del Monaco. Il nome del progetto è una vera e propria dichiarazione d’intenti, cioè di unire classico e avanguardia (infatti Avantra = AVANguardia + TRAdizione) e infatti il disco è un continuo susseguirsi di sessioni all’avanguardia di pianoforte e tastiere di Tisocco e tracce più tradizionali. Nonostante sia una proposta ben più alta rispetto al classico progressive italiano, resta un disco molto pregiato e consigliatissimo. La faccia più enigmatica e sfuggente del prog italiano giace tutta qui.

Bene, il nostro viaggio può dirsi concluso; nondimeno, il mio invito è di gettare lo sguardo a tutta l’abbondanza del nostro panorama descritto, anche perché molti sono i nomi che purtroppo mancano in questa lista, proposta solo a livello esemplificativo. Alla prossima.

Blaze.


The Flaming Lips-Strobo Trip

Artista: The Flaming Lips

Album: Strobo Trip

Genere: Psychedelic Rock

Anno di Pubblicazione: 2011

Etichetta: Warner Bros.

Alla fine l’ho ascoltato, e lo chiamano pure EP. Questo disco (sempre se di disco si può parlare, in realtà i sedicenti acquirenti hanno trovato dentro il pacco solo una costruzione psichedelica, un gadget insomma, poi otto dischi di cartone e una chiavetta usb contenente l’enorme file) in qualche modo trascende il concetto di “piacere dell’ascolto” pur non risultando per questo “brutto” nel senso canonico del termine.
Dopo i sei minuti della validissima Butterfly, How Long It Takes to Die arriva la vera e propria “superstar” dell’EP, ossia I Found a Star on the Ground, una folle jam della durata complessiva e ininterrotta di trecentosessanta minuti, vale a dire più canonicamente sei ore. Un quarto di giornata. L’apertura è già acida ed “in medias res” con delle percussioni fortemente dissonanti e riff acidissimi. Dopo la ripetizione ad libitum dello stesso tema con poche variazioni ed improvvisazioni, entra in scena l’unica frase del testo di tutto il brano, ossia proprio “I found a star on the ground”. Verso l’ora e mezza inizia un’interminabile lista di nomi. Ascoltando il pezzo man mano, ci si rende conto dell’effettiva ed intrinseca qualità di ogni singolo passaggio (sebbene in un tale ininterrotto scorrere è ovvio che dei passaggi sopprimibili ci siano) e dunque si è portati a non skippare. Le influenze sono molteplici, e vanno dalla psichedelia più acida e dura fino ai corrieri cosmici tedeschi. L’attrazione per la qualità delle sezioni, dei vari riff sempre azzeccati e dagli a volte eterei altri acidi interventi tastieristici porta l’ascoltatore a restare ingabbiato dalla jam ma contemporaneamente affascinato: vorrebbe interrompere o skippare, ma sa che facendolo perderebbe altra buonissima musica.
Potrei dare l’eccellenza a questo lavoro per la musica contenuta così come potrei dare un punteggio nullo per l’angoscia in cui può gettare l’ascoltatore per la sua durata pressoché infinita. Mi limiterò a non dare alcun voto e a consigliare l’EP, chiaramente solo a chi se la sente.

Voto: s.v.

Blaze.


Alan Sorrenti-Aria

Artista: Alan Sorrenti

Album: Aria

Genere: Progressive Rock

Anno di Pubblicazione: 1972

Etichetta: Harvest

Mai carriera fu più illusoria. Se si pensa al nome di Alan Sorrenti viene naturale abbinarlo a brani frivoli e di dubbia qualità che hanno fatto la storia della (scarna) scena synthpop nostrana come Figli delle Stelle, e di fronte alla scadente e dozzinale fattura di questi pezzi difficilmente ci si volta indietro, sperando di trovare qualcosa di effettivamente diverso o superiore. A volte però conviene farlo. Voltando le spalle dietro Figli delle Stelle e dietro un omonimo album (incentrato perlopiù sulla tradizione napoletana), troviamo un dittico di album (specialmente quello curato in questo post, il debutto, Aria), tra i più personali (se non il più personale) e curati di tutta la scena progressiva italiana. Non si trovano barocche e relativamente scontate citazioni della coeva scena prog inglese, mutuate nella stragrande maggioranza della scena nostrana. L’impostazione è puramente personale, basata sulla concezione (creata su tutti dal compianto Tim Buckley) della voce come strumento e su un ventaglio di strumenti principalmente acustici. Un folk dal sapore progressivo e dal retrogusto gotico pervade la mastodontica suite che dà il titolo all’album, Aria. I diciannove minuti della title track descrivono nei testi sibillini e sfuggenti presumibilmente gli ultimi minuti di vita di un uomo, che cerca disperatamente l’aria, il suo unico approdo di salvezza, tuttavia fallendo in questo tentativo e destinato alla morte (“Io sento che ti sto perdendo”, recitano le parole finali del brano). Questo sforzo titanico dell’uomo contro la morte è musicalmente descritto da Sorrenti in modo angoscioso ed oscuro: il brano si apre su sfondo acustico con delle voci simili a sirene in sottofondo (atte a simulare probabilmente proprio il soffio dell’aria), come da lezione di Buckley. Impreziosita anche dal violino di Jean-Luc Ponty, la suite si sussegue in preziosi arpeggi acustici, vocalizzi quanto mai arditi e sperimentali che non fanno che descrivere il senso di angoscia del morente, quasi a sottolineare la voce strozzata di una persona in debito d’ossigeno; questi elementi uniti formano Aria, indubbiamente la suite più sui generis del progressive nostrano. Il resto dell’album è meno sperimentale, se si può usare questa parola: una calma apparente velata da una forte malinconia accompagna la ballata acustica Vorrei Incontrarti, successo in scaletta ancora oggi del Sorrenti pop. Nelle successive La Mia Mente ed Un Fiume Tranquillo tornano le tinte più fosche della title track, ma il marchio dell’eccellenza sull’album era già stato calato sin dal diciannovesimo minuto.

Voto: 8/10

Blaze.


Rockstadium.com torna a postare!

Il blog, nonostante domani sia esattamente un mese dall’ultimo post, non chiude né ha intenzione di farlo: abbiamo solo preso una meritata pausa natalizia, ma il blog è pronto per tornare a postare.


Rush

Rush

Poche band al mondo dopo aver raggiunto il successo planetario o anche solo dopo aver fatto un buon passo discografico decidono di reinventarsi virando verso un genere diverso o addirittura opposto rispetto a quello precedente. Insieme a poche altre eccezioni sono i Rush la band-immagine di questa dimensione magmatica nella quale è impossibile concepire un momento statico e dove l’evoluzione del sound è continua, inarrestabile, album dopo album, persino show dopo show. Nonostante questi continui cambiamenti, il trio canadese ha mantenuto una sorta di “marchio di fabbrica” tale da permetterne il riconoscimento immediato, qualsiasi siano le influenze trattate. Malgrado l’innegabile qualità dei loro lavori sin dagli esordi, il gruppo nei suoi primi movimenti nel mondo della musica ha tra l’altro subito un feroce ostracismo da parte della critica, ciò che tuttavia non ne ha mai permesso il definitivo declino.
I due membri fondatori dei Rush, Gary Lee Winrib (successivamente noto come Geddy Lee) ed Alexander Zivojinovich (alias Alex Lifeson), provenienti da Toronto, hanno entrambi avuto un’infanzia piuttosto difficile.

Geddy Lee nacque ad Hollowdale il 29 luglio 1953. Pare fosse, come da sue effettive dichiarazioni, “un bambino timido e silenzioso”. Effettivamente la sua vita fin dai primi anni aveva visto momenti drammatici: entrambi i suoi genitori, infatti, erano sopravvissuti all’olocausto nazista e, poveri, erano emigrati dopo la guerra. Lavorando i genitori erano riusciti ad elevarsi alle classi medio-basse, ma, essendo tra i pochi ebrei del quartiere, temevano comunque ripercussioni o violenze da parte del vicinato. Aveva perso il padre a soli dodici anni, e per questo motivo, secondo tradizioni ebraiche, gli fu vietato per quasi un anno di ascoltare musica. In altre parole, durante quell’anno il giovane Gary fu privato di tutto ciò a cui gli altri bambini iniziavano ad interessarsi. Alla fine di questo periodo di lutto, per premiare la sua diligenza, sua madre si propose di fargli un regalo. Geddy, di tutta risposta, propose di acquistare una vecchia chitarra in vendita da un vicino e la madre, per quanto la famiglia fosse ancora in ristrettezze economiche, gli diede cinquanta dollari per l’acquisto.
Fu alle scuole superiori che incontrò Zivojinovich, col quale andò subito d’accordo, fra i tanti motivi, per affini gusti musicali.

Alex Lifeson nacque invece a Fernie, nella Columbia Britannica, il 27 agosto 1953. Anche la sua famiglia, come quella di Lee, era emigrata dopo la guerra, precisamente dalla Jugoslavia. Dopo qualche anno si trasferirono a Toronto, dove ricevette una regolare educazione scolastica. Suo padre, appartenente alla bassa borghesia, era costretto a fare due o tre lavori alla volta per poter mantenere la sua famiglia.
Ottenne la sua prima chitarra dopo aver proposto ai suoi genitori di comprarla nel caso avesse ricevuto una pagella positiva. Benché non potessero permettersela, gli Zivojinovich arrivarono a chiedere un prestito per accontentare il giovane Alex.
Ricevuta quella chitarra, Alex passava la maggior parte del suo tempo suonando: rientrava a casa dalla scuola e suonava per più di sei ore fino all’ora di cena.

I due ragazzi, dopo aver reclutato un vicino, John Rutsey, alla batteria, debuttarono in trio col nome di Rush in uno spettacolo nel settembre del 1968 in una chiesa, detta “La Tomba” perché era in un sottoscala. Nella fattispecie Lifeson aveva ottenuto la possibilità di suonare e aveva chiesto a Lee se fosse interessato, dato che i due conoscevano le stesse canzoni, di suonare la parte di basso. La folgorante carriera dei Rush iniziò dunque con un concerto di fronte a trentacinque persone remunerato con dieci dollari per l’intera band.
I Rush, tuttavia, non avevano alcun sogno di grandezza e non avevano intenzione di elevarsi oltre il rango di semplice band locale. Quando, ragazzi come tanti altri, uscivano insieme, frequentavano nella città di Toronto un locale chiamato Upper Crusts dove si esibivano musicisti, sebbene locali, di una certa esperienza. Lì suonava una band di cui i Rush erano grandi fan e di cui cercavano di emulare l’immagine: i The Paupers.
Dopo poche settimane entrò nella vita dei tre ragazzi un uomo che li avrebbe segnati in modo indelebile: il futuro manager Ray Danniels. Questi credeva che, nonostante fossero inesperti, i Rush avessero del gran talento e avessero solo necessità di pubblicizzarsi a dovere. Per questo motivo egli riteneva che il gruppo avesse bisogno di un manager e assunse lui stesso l’incarico.
Fu quindi proprio grazie a lui, un vero e proprio “quarto Rush”, che l’ensemble canadese poté iniziare a crescere. Uno dei fattori che permisero ai primi Rush di guadagnarsi notorietà, stando al parere di Danniels stesso, era il fatto che in Canada la soglia di età per bere alcolici fosse alta (21 anni) e che di conseguenza le scuole si fossero prese la responsabilità di intrattenere gli adolescenti, in quanto ciò aveva creato un vero e proprio circuito di band chiamate a suonare alle feste scolastiche. Fu così che i Rush iniziarono i primi concerti, cercando di includere in scaletta i pezzi più in voga all’epoca (in particolare molti pezzi di Sadie Hawkwins).
Tuttavia l’attitudine della band, ben più dura e ribelle, mal s’adattava a ciò che i ragazzi dell’epoca chiedevano alle feste della scuola: placidi pezzi ballabili.
Nel frattempo sia Geddy Lee sia Alex Lifeson decisero di rinunciare alla scuola, Lifeson per dedicarsi interamente alla musica, Lee perché era eccessivamente pressato dalla fuga dall’olocausto e dalla morte di suo padre.

La svolta della band arrivò tuttavia nel 1971, quando la soglia di età per bere passò dai 21 ai 18 anni e i Rush, che compivano i 18 anni proprio quell’anno, poterono passare da sporadiche apparizioni a feste scolastiche a suonare nei bar anche cinque o sei volte alla settimana, ciò che era più remunerativo e serio.
Danniels nel frattempo era irremovibile nel suo intento di far incidere alla band un full length in studio, ma nessuna label sembrava realmente interessata, dunque si pose l’obiettivo di trovare i soldi necessari e di produrre lui stesso l’album. Intanto furono all’invana ricerca, per ben quattro mesi, di un produttore per questo album.
La svolta arrivò quando il demo giunse dal Canada tra le mani di una DJ di Cleveland 101 fm, format radiofonico molto in voga all’epoca. Questa DJ passò subito al brano più lungo della demo (che all’epoca, per una convenzione chiamata “la canzone da bagno”, ossia la ricerca di un brano abbastanza lungo da permettere a chi la ascoltasse di andare in bagno e tornare senza che questa sia finita, era ritenuta in modo automatico quella di maggiore qualità) e dunque si trovò nelle orecchie uno dei primi futuri classici della band, tuttora presente in pianta stabile nelle loro scalette: Working Man. Questo fu subito ritenuto perfetto per il format, in quanto essendo Cleveland una città industriale, questo brano rispecchiava appieno tutti gli ascoltatori.
Ascoltando i pezzi, diversi ascoltatori iniziarono a telefonare al format, chiedendo esasperati quando sarebbe uscito il nuovo album dei Led Zeppelin: i Rush erano stati confusi con l’ensemble inglese (effettivamente quello con i Led Zeppelin sarebbe rimasto per molti anni a seguire un paragone piuttosto ingombrante), sia per l’acuta e squillante voce di Geddy Lee sia per la fattura del riffing.
Di qui l’ascesa fu lineare: Cliff Brunstein, che lavorava alla Mercury Records a Chicago, un giorno ricevette un plico con il debutto dei canadesi sulla scrivania; questi ascoltando l’album ne rimase talmente travolto che contattò in tutta fretta il presidente della Mercury Records perché riteneva che i Rush meritassero un contatto.
L’accordo fu raggiunto dopo appena otto ore. È sotto questo clima che viene dato alle stampe il debutto omonimo, Rush (Mercury, 1974).
L’album si articola in otto momenti specifici, tutti fortemente debitori all’hard rock europeo dell’epoca, in particolar modo ai Led Zeppelin (del paragone con i quali si è già parlato sopra). I momenti migliori dell’album sono sicuramente tre: Finding My Way, l’opener, un’ottima scarica hard rock che poggia su una strofa molto dinamica e su un riffing molto duro. Già dalle prime note è evidente che il trio, pur essendo ancora al debutto, possedeva doti tecniche invidiabili. In the Mood, invece, che sarebbe stato suonato dalla band per molti anni a venire, è un mid-tempo scanzonato dove Geddy Lee mette in mostra la sua potenza vocale in un ritornello fortemente catchy. Infine la già citata Working Man, indubbiamente il pezzo trainante del disco, dotata di un riff portante già maturo (e meno debitore rispetto agli altri in durezza di suono) e di tematiche forti e molto care agli ascoltatori. L’album fu un grande successo e ciò permise al gruppo di avviarsi ad un fortunato tour. Tuttavia il batterista John Rutsey, fautore tra l’altro di un’ottima prova sul disco, iniziava ad accusare segni di intollerabilità a tutti quei cambiamenti. A ciò si sommavano divergenze musicali, in quanto mentre Lee e Lifeson preferivano dedicarsi al progressive rock in voga in Inghilterra durante quegli anni (in particolar modo Yes, Genesis e Pink Floyd), Rutsey era rimasto su lidi prettamente hard rock e non riusciva a spiegarsi i gusti dei compagni.
Inoltre Rutsey non riusciva a rinunciare ai suoi eccessi (specialmente l’alcol) pur essendo diabetico e, temendo per la sua salute, Vic Wilson, un manager di allora dei Rush, si prese l’incarico di congedare Rutsey il quale, anche se con una certa amarezza, comprese che sarebbe stato anche meglio per lui. I Rush dunque avevano solo un mese, con tour già programmati negli Stati Uniti, per trovare un batterista bravo a sufficienza ed insegnargli tutti i pezzi del repertorio: è qui che entrò in scena Neil Peart.

Nato il 12 settembre 1952 in una fattoria vicino ad Hagersville, nell’Ontario, Neil Peart si trasferì a St. Catherine con la sua famiglia quando aveva circa quattro anni. Non era atletico, la sua più grande passione era la letteratura e aveva un amore sconfinato verso il sapere fine a sé stesso e in qualsiasi sua forma (sua madre racconta come avesse voluto imparare il lavoro a maglia solo per sapere come si facesse).
Peart scoprì il rock (e di conseguenza, la batteria) quando iniziò le scuole superiori. Per sua stessa ammissione, con la batteria misurava il suo amor proprio. Intanto fu preso a suonare in una band locale di hard rock progressivo molto famosa all’epoca, i J.R. Flood, con i quali provava tutti i giorni e anche lui, come i primissimi Rush, iniziò suonando alle feste nelle scuole superiori.
La vita di Neil Peart scorse tranquilla finché, mentre lavorava al negozio di attrezzature agricole del padre, arrivarono dei manager in automobile per dirgli che una band canadese, i Rush, avevano bisogno di un batterista e che per questo intendevano fargli un’audizione. Spinto dal padre, il giovane Peart decise di accettare la proposta.

“Scese dalla macchina un ragazzo smilzo, con i capelli corti. A prima vista, mi sembrò sciocco.” questi furono i primi pensieri di Geddy Lee di fronte al nuovo arrivato al momento dell’audizione. “Pensai che non avesse lo stile per far parte della band. Ma quando iniziò a suonare, tirò fuori l’impossibile da quella batteria. Suonava come Keith Moon e John Bonham allo stesso tempo.” queste furono invece le prime impressioni a caldo di Alex Lifeson.
In tal modo Peart fu assunto e in sole due settimane dovette imparare canzoni che non aveva mai sentito prima.
Il primo spettacolo sarebbe stato di fronte ad 11.000 persone al Pittsburgh Civic Arena come band di supporto a Manfred Mann ed Uriah Heep: finalmente i Rush approdavano negli Stati Uniti.
Viaggiavano in condizioni molto precarie, dormendo spesso sui bagagli o nelle auto e, in caso di alberghi disponibili, dividevano le stanze in modo sempre diverso. Lo trovavano stimolante.
Un momento molto importante, che consentì loro di imparare diverse cose circa la musica rock, fu un tour canadese di circa sessanta date con i Kiss.
I Rush si dimostrarono tuttavia molto differenti dall’ensemble statunitense. Un aneddoto molto curioso per l’epoca è il seguente: alla fine delle serate, mentre Gene Simmons spesso si intratteneva in compagnia di ragazze, fan venute lì apposta per lui, i Rush evitavano tutto questo, preferendo chiudersi in camera alla fine di ogni show. Una notte, a Milwaukee, i Rush erano nello stesso piano d’albergo di una squadra femminile di bowling e le ragazze giravano in camicie da notte bevendo con le porte delle loro stanze aperte. I Rush preferirono restare nella loro stanza a guardare la TV dopo lo spettacolo.

Intanto, arrivato il momento di incidere nuovo materiale per rispettare il contratto con la Mercury, Lee e Lifeson iniziarono a conoscere meglio il loro nuovo batterista, rendendosi finalmente conto di quanto fosse colto, ed infine pensando per la prima volta che potesse anche scrivere dei testi.
Per Geddy Lee, su sua stessa ammissione, era stimolante, benché difficile, pronunciare i nuovi testi scritti da Neil Peart, ben più impegnati e meno scanzonati di quelli cantati dal canadese fino a quel momento, con la stessa grinta che aveva mostrato su Rush.
Peart dunque, tra uno spettacolo e l’altro, iniziò a scrivere i suoi testi a mano su dei fogli e spesso scriveva anche accanto al testo la città in cui esso era stato concepito.
È appunto in tour, senza alcuna pausa, che il primo, rudimentale scheletro di Fly by Night (Mercury, 1974) vide la luce.
Questo album appariva ben diverso dal suo precedessore in quanto, con testi di un certo livello e con un background musicale ora impreziosito da nuove influenze progressive e irrobustito dai tour con band più esperte, la band sembrava quasi irriconoscibile rispetto al ben più ingenuo debutto.
Sebbene ci siano nuove influenze, Fly by Night resta un album prettamente hard rock, con pezzi di grande qualità (come la title track o Anthem, uno dei pezzi più pesanti e duri scritti fino a quel momento) alternati ad episodi più dimenticabili (come la tralasciabile Best I Can).
In ogni caso, trascendendo dalla sua qualità, il pezzo più rappresentativo di questo album (nonché quello che troverà maggiore seguito fino a culminare nel grande periodo progressivo dei Rush) è By-Tor and the Snow Dog, una rudimentale suite in quattro movimenti dove finalmente il trio si rende conto che tipo di soddisfazioni potesse arrecare quel genere di pezzi. Alla casa discografica tuttavia questa virata di sound non fu compresa, ed infatti iniziarono ad arrivare pressioni affinché fossero scritti pezzi più brevi, fatti per essere commercializzati come singoli.
Per tutta risposta i Rush scrissero Caress of Steel (Mercury, 1975), che era a grandi linee l’esatto opposto di quanto richiesto loro: dopo una manciata di raffazzonati brani hard rock (a parte Bastille Day, che risulta invece una vera sfuriata di grande qualità) quali I Think I’m Going Bald e Lakeside Park, il disco lascia spazio a ben due suite multisezione, The Necromancer, della durata di dodici minuti, divisa in tre movimenti e trattante un’epica avventura ispirata fortemente alle opere di Tolkien, e The Fountain of Lamneth, che per pochi secondi non raggiungeva venti vertiginosi minuti di durata, divisa in sei movimenti ed incentrata sulla storia di un uomo che ha impiegato tutta la sua vita alla ricerca della leggendaria fontana di Lamneth finché, trovatala, si rende conto che tutta l’eccitazione che aveva provato nell’incessante ricerca era svanita.
Il brano ha dunque una morale filosofica: spesso la ricerca di qualcosa dà emozioni più forti del conseguimento della cosa stessa. Più che un’organica suite, in ogni caso, The Fountain of Lamneth appare come un collage di sei brani hard rock ben distinti. Dopo un’appassionata introduzione acustica è svelato il tema principale, un rocciosissimo crescendo alternato a momenti più arpeggiati. Successivamente il resto dei movimenti fino all’ultimo risultano delle “semplici” tracce hard rock che potrebbero senza problemi esistere indipendentemente dalle altre, il tutto fino al movimento finale, che ripropone il tema iniziale, per poi chiudersi con un arpeggio simile a quello di apertura. La suite è quindi organizzata chiasticamente. È presente inoltre poco prima della metà del brano un velocissimo e tribale assolo di batteria nel movimento chiamato “Didacts and Narpets”.
Il brano, così come tutto l’album, in ogni caso, non fu affatto compreso né dalla casa discografica né dei fan della prima ora, che lo ritenevano troppo complesso ad artificioso, sia sotto il punto di vista del sound, sia dei testi. Per questo motivo Caress of Steel fu una disfatta discografica, ciò che colse i Rush impreparati. La band dopo poco finì a suonare per sole venti persone in locali di poco conto: era chiaro a tutti che ormai l’”avventura Rush” era volta al termine.

Nel frattempo Ray Danniels cercava disperatamente di mantenere il contratto con la casa discografica la quale, clemente, concesse un ultimatum: i Rush avrebbero dovuto scrivere singoli più commerciali in modo da tornare ai successi commerciali di un tempo.
Ancora una volta i Rush fecero l’esatto opposto di quanto preteso da loro. “Fu un grande no [alla casa discografica]. No, non faremo niente di simile, no, non potete dirci cosa fare e no, non ci importa.” queste furono le parole, condivise dai Rush all’unisono, nei confronti della richiesta di scrivere singoli contro il loro volere.
In definitiva, la reazione dei Rush alla richiesta di brani da tre minuti fu un disco capeggiato da una traccia da venti, 2112 (Mercury, 1976).
La title track, ritenuta da molti a ragione il brano migliore mai scritto dalla band, è un’epica suite in sei movimenti dall’aspetto più organico rispetto alla precedente The Fountain of Lamneth. La storia è ispirata alla novella filosofica di Ayn Rand “Anthem”: nell’anno 2112 l’umanità è ridotta in servitù da esseri meccanici, i sacerdoti dei templi di Syrinx. Gli umani conducono un tenore di vita agiato ma è preclusa loro la possibilità di esercitare qualsiasi cosa faccia emergere la sua individualità. Un ragazzo, tuttavia, un giorno trova una vecchia chitarra. Entusiasmato dalla scoperta, il ragazzo corre dai sacerdoti a mostrare lo strumento. Questi, fiutato il rischio che si celava dietro la chitarra, gli ordinano di disfarsene in quanto non fosse coerente col loro piano politico (“It doesn’t fit the plan”). Il ragazzo, disperato, ha un sogno: un tempo sulla terra regnava una differente razza, quella degli uomini (l’”elder race” tanto citata nel brano) che un giorno sarebbe tornata a riprendere ciò che era suo. Tuttavia al suo risveglio, capendo che questo momento sarebbe arrivato molto più in là, per non dire mai, decide di porre fine alla sua vita. Il brano si chiude con un’enigmatica frase ripetuta tre volte (“Attention, all the planets of the solar federation! We have assumed control.”) che può avere due significati, opposti tra di loro: o gli umani, dopo una battaglia, sono riusciti a prendere il controllo oppure i sacerdoti dei templi di Syrinx sono riusciti a riaffermare il loro potere.
Anche musicalmente 2112 è tutto ciò che si possa definire capolavoro: aperta da un’introduzione strumentale di circa quattro minuti denominata “Overture”, il pezzo si districa tra movimenti di possente hard rock (come la dirompente “Temples of Syrinx”) ed altri più arpeggiati e ragionati (come l’inizio di “Soliloquy” o “Discovery”) fino a concludersi nella più totale orgia sonora (“Grand Finale” fu uno degli esempi di rock più duro per l’epoca).  L’epopea sci-fi della band era stata scritta e aveva come simbolo quello che poi sarebbe divenuto lo stemma ufficiale della band: un uomo nudo di fronte ad un pentacolo, che simboleggiava l’umanità, inerme contro il sistema. Il resto del full length, anche se adombrato dalla title track, presentava altri pezzi di ottima caratura, come l’orientaleggiante A Passage to Bangkok oppure la semiacustica Lessons (scritta tra l’altro dal solo Lifeson). Quando la Mercury poté ascoltare 2112, si trovò nel panico, pensando che fossero finiti.
2112 fu invece un disco di enorme successo, ciò che valse finalmente ai Rush l’indipendenza totale dalla casa discografica. “Fu il nostro passepartout”, afferma Peart in merito con aria trionfante.

La critica del tempo, però, sembrava non pensarla allo stesso modo. La musica dei Rush era vista come un qualcosa di già sentito e di stantio, ed in particolare non era gradita la voce di Geddy Lee, che, tra i tanti, ottenne gli epiteti di “criceto sotto sforzo”, “canto dei morti all’inferno”, “Mickey Mouse che strilla”, “criceto strangolato”, “un gatto con una fiamma nel sedere”.
Ciononostante ai Rush interessava solo l’apporto del pubblico che, anziché placarsi, continuava ad intervenire sempre più copioso. La prima fase della band, quella denominata formalmente come hard rock, terminava qui e culminava nel live All the World’s a Stage (Mercury, 1976), che proponeva il meglio dei brani dei primi quattro album, tra i quali spicca una versione ridotta di ben un quarto d’ora di 2112.
Sotto questa buona stella fu scritto A Farewell to Kings (Mercury, 1977), il primo album della seconda fase, formalmente definita “progressive”, in quanto propone brani dilatati più omogenei, cambi di tempo ed atmosfere meno dure e più melodiche.
L’album proponeva sperimentazioni maggiori, i generi di chitarre aumentavano ed anche di bassi, inoltre Geddy Lee iniziava a lavorare con le tastiere, che però non erano che un mero riempitivo rispetto alla possente sezione solista di Lifeson (celebre è lo stacco di moog in Xanadu).
L’album si apre con la title track, che è aperta da un’introduzione di chitarra acustica, fungente da preludio al brano vero e proprio, un brano hard rock di ottima fattura che ancora potrebbe mantenere qualche legame con i Rush dei primi tempi (è doveroso dire, infatti, che le cosiddette “fasi” in cui si suole dividere formalmente la carriera dei Rush in realtà sono completamente fittizie ed anzi, è possibile notare una continuità fra gli album, pertanto è impossibile parlare di A Farewell to Kings senza tenere conto di ciò che lo precede). È dalla seconda traccia, Xanadu, che appare evidente la frattura con il passato. Dedicata al poema di Samuel Taylor Coleridge Kubla Khan, il brano parla di un uomo all’affannosa ricerca del “pleasure dome” costruito appunto dall’antico re Kubilai Khan, nel quale era custodito il segreto della vita eterna. Giunto nel sito cercato, l’uomo si abbevera del “latte del paradiso”, diventando così immortale. In mille anni di vita l’uomo impazzisce, rendendosi conto che la vita eterna, più che un dono, era una maledizione. A livello di sound il brano, della considerevole durata di oltre dieci minuti, si apre con un’ariosa introduzione di tastiere e chitarra, sulla quale poi poggia il riff portante; con numerosi cambi di tempo, il brano raggiunge il suo picco espressivo prima dell’outro, nel momento in cui l’uomo, folle, maledice il momento in cui ha deciso di diventare immortale.
Molto meno raffinato nei modi e potente risulta invece l’altro lungo pezzo dell’album, il primo della serie Cygnus X-1, ossia Cygnus X-1 Book I: The Voyage, suite in tre movimenti che può a ragione essere annoverata tra le massime ispirazioni del futuro progressive metal. Basata su dei riff durissimi, la suite si divide in un preludio strumentale di grandissimo effetto, che poi lascia spazio ad un secondo movimento, più allegro nei modi, con un Geddy Lee in stato di grazia che spiega quale sia la storia: un astronauta sulla sua astronave, la Roncinante, ha intenzione di partire alla volta del buco nero Cygnus X-1 per scoprire dove ci sia. Alla fine del movimento, però, l’astronauta è catturato dal buco nero. Dopo circa un minuto e mezzo di angosciosi arpeggi di chitarra reiterati ad libitum parte il momento finale della suite, una possente orgia sonora alla fine della quale Geddy Lee, stendendo alle note più acute il suo tessuto sonoro, urla letteralmente la fine incerta dell’uomo ed infine degli enigmatici arpeggi di Lifeson segnano la fine di uno degli episodi più felici della carriera del trio.
Inoltre tra i pezzi brilla uno dei classici maggiori della band, la brevissima Closer to the Heart, che gioca su un’interessante corrispondenza tra durezza e melodia ed è tuttora uno dei classici più inossidabili della band.
A Farewell to Kings portò il successo internazionale alla band, che per la prima volta arrivò a scalare le classifiche inglesi. Neil Peart, intanto, faceva sempre più integrazioni al suo drum-kit (tra cui una campana, utilizzata in Xanadu).
L’album fu inoltre seguito da un interessante tour con gli UFO, ciò che giovò molto ai Rush, insegnando loro ad ironizzare su sé stessi (in particolare gli inglesi ironizzavano sui poetici testi di Neil Peart).

 Se A Farewell to Kings era ancora in qualche modo in bilico tra brani semplici e diretti ed altri più compositi e complessi, il successivo Hemispheres (Mercury, 1978) fece pendere l’ago pesantemente a favore dei secondi. “Hemispheres fu l’album dei Rush che ruppe ogni record in quanto a lunghezza delle canzone” affermò in merito Geddy Lee.
In effetti l’album presenta appena quattro tracce, di cui due molto lunghe e complesse e due più semplici e canoniche.
Il lato A del full length è interamente occupato dalla title track, ossia Cygnus X-1 Book II: Hemispheres, una compattissima suite in sei movimenti, con tutte le probabilità il brano più complesso mai scritto dalla band, sia sotto il punto di vista dei testi sia sotto quello musicale.
Il brano si apre con una sghemba introduzione strumentale: gli epici assalti in 4/4 di 2112 sono ormai solo un lontano ricordo, Hemispheres è aperta da riff ragionati e cervellotici, continui cambi di tempo e di atmosfera. Senza che si avverta una netta frattura tra un movimento e l’altro (ciò che rende Cygnus X-1 Book II: Hemispheres il migliore esperimento dei Rush per quanto riguarda le suite, che fino a quel momento, alcune più, altre meno, risultavano solo un collage di parti nettamente distinte se non per tematiche), la voce di Geddy Lee, possente e acuta, irrompe nella scena. La storia, che affonda le sue radici filosofiche in Nietzsche, narra di due dèi, Apollo e Dioniso, rispettivamente simboli di ragione e sentimento, che si danno battaglia all’interno dell’anima di ogni uomo l’uno per avere il sopravvento sull’altro. È così che, passando per le due presentazioni dei poteri dei due dèi, riassunte nei movimenti Apollo: Bringer of Wisdom e Dionysus: Bringer of Love, si giunge all’apocalittica battaglia tra le due divinità (Armageddon: The Battle of Heart and Mind) che si apre con un complesso assolo di Lifeson in tempi dispari. Intanto finalmente la storia si ricongiunge al primo di libro di Cygnus X-1: la Roncinante è uscita dal terribile buco nero trovandosi in una specie di strano limbo, che poi si sarebbe rivelato essere l’Olimpo.
A questo punto della suite, l’inizio di Cygnus: Bringer of Balance, l’ascoltatore è quasi assalito da un’ariosa sezione di tastiere, suonate da Geddy Lee, sulla quale si innestano sample prese da Cygnus X-1 Book I: The Voyage. Infine un intervento vocale filtrato di Geddy Lee specifica il passaggio dell’astronauta nell’Olimpo, dove avrebbe portato pace tra i due dèi, ancora in lotta.
Il finale del movimento è trionfante: l’astronauta narra agli dèi la sua storia e spiega loro la situazione della Terra, divisa in “spiacenti emisferi”. Le divinità, colpite dal racconto del protagonista, decidono di comune accordo di nominarlo Cygnus, dio dell’equilibrio. Il finale, acustico, descrive la perfezione di saper vivere in un giusto equilibrio tra mente e cuore (“Let the truth of Love be lighted / let the love of Truth shine clear”) e dunque l’armonizzazione dei due “emisferi” in un’”unica, perfetta sfera”.
La suite, indubbiamente il massimo sforzo della band sotto tutti i punti di vista, è a ragione definita da Neil Peart “incredibilmente complesso, sia nei temi che nella struttura”.
L’altro brano lungo, una suite in dodici brevi movimenti ed interamente strumentale è senza alcun dubbio il tour-de-force più selvaggio mai intrapreso dal gruppo: nei nove minuti de La Villa Strangiato (che non a caso porta come sottotitolo “An Exercise in Self-Indulgence”) il trio sfida i propri limiti in un brano strumentale scritto su stessa ammissione dei tre solo per dare sfogo alle proprie velleità virtuosistiche.
Aperta da un apparentemente innocuo assolo di chitarra acustica, la traccia è subito introdotta al suo tema principale, che raggiunge il suo culmine nel riff portante in un’eccitante climax. Appunto il riff portante, ripetuto per ben due volte, è già occasione per tutti i membri del trio di dare sfoggio delle proprie abilità tecniche (in particolar modo per Geddy Lee che, gestendo al contempo tastiere e basso, si lascia andare in ogni caso a passaggi molto complessi, ciò che sarà anche più evidente in sede live). Successivamente tra divagazioni ai limiti della fusion e su una base ritmica inquietante Lifeson inizia il suo spericolato assolo. Inizialmente lento ed atmosferico, la sessione solistica del chitarrista evolve in un crescendo sempre più selvaggio e complesso per circa due minuti. Quindi si passa ad una serie di continue variazioni di tema e di tempo da parte del gruppo, dove tanto Peart quanto Lee quanto Lifeson si divertono a mettere in mostra le proprie credenziali fino ad un trionfale ritorno al tema originale, che conduce la suite alla conclusione.
La Villa Strangiato costituì una vera sfida per l’ensemble, che si era ripromessa di registrarla in un’unica sessione. Alla fine, tuttavia, dovettero arrendersi e registrarla in tre. Menzione tuttavia meritano anche i due brani cosiddetti “minori”, ossia Circumstances, brano hard rock molto piacevole dalla breve durata e The Trees, ormai ballata entrata a ragione tra i classici della band che cela sotto l’apparentemente ingenua storia degli alberi che lottano per la luce del sole un’efferata critica socio-politica, forse contro il razzismo.
Questo brano, ma tutto Hemispheres in generale, costrinse per la sua complessità i Rush a fuggire dall’ambiente dove avevano lavorato in una fattoria in Galles, isolata da tutto e da tutti, compreso dalle loro famiglie.
Tale soggiorno sconvolse del tutto le abitudini dei tre finché non arrivarono ad un punto di totale spaccatura, andando a dormire a mezzogiorno, svegliandosi e facendo colazione alle sette di sera e poi provando per tutta la notte, il tutto senza tregua né pace.
Per quanto il disco (con conseguente tour) sia stato un successo totale, i Rush furono fortemente traumatizzati dall’esperienza di Hemispheres, che decisero che non avrebbero mai ripetuto. “Quell’album era più grande di noi” commenta terrorizzata la band tuttora. Addirittura i matrimoni dei rispettivi membri furono effettivamente messi in discussione, in quanto per provare e comporre in modo sempre più isolato le famiglie venivano completamente trascurate. I Rush avevano raggiunto il loro momento più alto.

Per questo motivo nel successivo Permanent Waves (Mercury, 1980) i Rush salutarono gli anni ’80 con più di una novità. Il sound appare sin dalle prime note di The Spirit of Radio molto più leggero e scanzonato. Il testo profondo che celebra una sorta di apologia della radio incarna alla perfezione l’ideale che Peart intendeva passare all’epoca: un suono più allegro, meno serioso. Compaiono anche nel centro dello stesso brano le prime influenze reggae, che accompagneranno i Rush per la prima metà del decennio in modo costante. La voce di Geddy Lee inoltre cambia completamente registro: dagli urli à la Robert Plant il vocalist si sposta su note più basse, definendo una volta per tutte il suo stile personale. La successiva Freewill, inno alla libertà e al libero arbitrio, rimarca in tutto e per tutto il messaggio del precedente brano, con un ritornello catchy e radiofonico. Le influenze prog tuttavia, più gravose che mai, si condensano nel primo lungo brano del disco, Jacob’s Ladder, un estenuante brano di sette minuti giocato su atmosfere cupe ed oscure che offre una band in grande equilibrio. Entre Nous e Different Strings, due riempitivi di gran classe ma pur sempre riempitivi, fanno solo da apripista per quella che è l’effettiva stella del disco, ossia Natural Science, una possente suite dalla durata di nove minuti in tre movimenti: una sorta di elogio alla scienza e un monito per l’uomo a non abusarne.
Il primo movimento, Tide Pools, è aperto da un fluido arpeggio di Lifeson, sul quale si innesta una strofa di un espressivo Geddy Lee. È così che si apre il secondo movimento, fondato su un continuo scambio di battute, sghembe ed imprevedibili. Tra assoli e strofe continui si giunge a Permanent Waves, movimento finale che dà anche titolo all’album. È così che si chiude il migliore capitolo per i Rush degli anni ’80.
Il disco fu registrato in un clima di pace e serenità a Le Studio in Canada, dove i Rush potevano stare tranquilli, accanto alle loro famiglie. I Rush non negano le influenze new wave, sottolineando la tendenza delle band di quella scena a progredire sempre maggiormente. In particolare Peart ama citare Talking Heads, Ultravox e Police. Per Neil Peart la canzone simbolo del periodo era The Spirit of Radio, segno di una volontà della band di fuggire a tutti i costi dal loro incubo incombente, ossia qualcosa di anche solo lontanamente simile ad Hemispheres. È interessante inoltre dire che comunque i Rush riuscivano ad evolversi letteralmente da uno show all’altro: Geddy Lee iniziava in quegli anni ad integrare arrangiamenti di tastiere inediti in studio (come si può notare ad esempio in Closer to the Heart, di cui l’arpeggio iniziale veniva in quegli anni accompagnato da un soffuso letto di tastiere moog), esperimento già iniziato sin dal tour di Hemispheres (esempio mirabile di ciò furono le ritmiche di tastiera sull’assolo di A Passage to Bangkok). Dunque da ciò emerge che le virate di sound per i Rush non furono un’illuminazione improvvisa, ma solo la sintesi di un lungo processo di coraggiose sperimentazioni on stage.
Geddy Lee ritiene Permanent Waves un tassello irrinunciabile della loro discografia: “come non ci sarebbe potuto essere nessun 2112 senza Caress of Steel, così non poteva esserci Moving Pictures senza Permanent Waves”.

E appunto ormai i tempi erano maturi per l’album considerato dalla maggior parte della critica il capolavoro dei Rush: Moving Pictures (Mercury, 1981).
L’album non presentava di fatto grandi novità rispetto al suo predecessore, ma si limitava, esattamente come fece 2112 con Caress of Steel, a prenderne i migliori pregi, a limarli e ad eliminarne i difetti. L’apertura è destinata ad essere marcata a fuoco nella storia del rock: Tom Sawyer rappresenta il massimo bilanciamento tra tastiere e chitarra mai raggiunto dalla band e l’uso delle prime è uno dei più intelligenti mai fatti nella storia del rock.
Il testo, diretto e incisivo a un tempo, descrive una sorta di nuovo eroe, un moderno Tom Sawyer che non accetta imposizioni da parte di nessuno. È come se dalle ceneri del passivo eroe di 2112, del tutto sottomesso al volere dei sacerdoti dei templi di Syrinx, sia nato questo Tom Sawyer, altro segno di netta distanza rispetto al passato.
Moving Pictures ha prodotto tantissimi classici della band, tra cui l’arcinota YYZ, la traccia strumentale più famosa del trio. Aperta da ticchettii che riassumono in codice morse appunto le lettere YYZ, il codice aeroportuale di Toronto. Lo stesso ticchettio costituisce il ritmo per il riff portante “a singhiozzo”, che poi si apre sul tema principale. Si continua con una serie di variazioni sul tema dove gli strumenti si rincorrono tra loro, fino al culmine del brano, dove irrompono epiche le tastiere che infine lasciano spazio ad un’ultima riproposizione del riff principale. Il brano, ordinato e preciso in ogni suo punto, può essere inteso quasi come una “anti-Villa Strangiato”, alla quale si oppone per rigore schematico ed ordine compositivo.
È presente, tra gli altri, un solo brano lungo, della lunghezza di più di undici minuti, The Camera Eye, basato tutto su un unico, dilatato tema. Un elegantissimo break centrale conduce alla parte finale della traccia, in toto di difficile assimilazione e piuttosto pesante.
Inizia inoltre dall’ultima parte, Witch Hunt, la serie Fear, concepita dal principio in tre brani, poi sviluppata in quattro, riguardo la paura in tutte le sue forme. Witch Hunt in particolare, che parla della paura nella sua forma più esterna, ossia quella del timore di massa, condensato nella feroce immagine della caccia alle streghe. Infine continua anche il discorso delle influenze reggae nella malinconica e quasi apocalittica Vital Signs, brano di grande qualità che pone il marchio su quello che è uno degli apici della carriera del trio canadese ed indubbiamente il loro migliore sforzo discografico.
Peart giunse addirittura ad asserire che “i veri Rush sono nati in quel periodo. È in Moving Pictures che i Rush hanno imparato a suonare contemporaneamente individualmente e come un gruppo”. A livello commerciale, il disco fu il più grande successo conseguito dalla band. Esso valse la presenza della band in tutte le radio e il pubblico agli show raddoppiò letteralmente: avevano già programmati tour in più di centoventi città americane.
Questa improvvisa fama globale creò tuttavia un momento di forte tensione all’interno dell’ensemble, soprattutto a causa dell’introversione di Neil Peart. Difatti, mentre il bassista/tastierista e il chitarrista si erano sempre mostrati molto amichevoli verso i fan, il batterista aveva sempre avuto un rapporto fortemente distaccato. “Non posso fingere che un perfetto sconosciuto sia un amico tanto atteso”: queste le sue parole a riguardo. Di fatto, con Moving Pictures e con il monumentale live Exit… Stage Left (Mercury, 1981), tra l’altro accusato di manomissioni in studio da parte della band e dall’aria fortemente rarefatta ed artificiosa, si chiudeva, almeno formalmente, il periodo “progressivo” della band: eravamo entrati di fatto nella selvaggia era “elettronica” dei Rush.

I Rush erano intanto pronti a dare alle stampe un nuovo album, il futuro Signals (Mercury, 1982), che presentava nette fratture con i suoi predecessori, in particolar modo a livello di sound e di strumentazione, ciò che tra l’altro causò anche le prime diatribe della band con il produttore Terry Brown.
Le otto tracce che componevano Signals (album che, tra l’altro, chiuse un curioso ciclo iniziato sin da Hemispheres che vedeva corrispondere al numero delle tracce gli anni di distanza dall’album omonimo di debutto del 1974: Hemispheres, del 1978, contava quattro tracce; Permanent Waves, datato 1980, sei; Moving Pictures, risalente al 1981, sette; questo Signals, dell’anno successivo, otto), rispetto alle ariose suite degli album precedenti risultano ben più “allineati” al formato canzone in voga in quegli anni (ma già da Moving Pictures ciò era avvertibile, segno ancora una volta di come in realtà l’evoluzione sia continua e descrivere la carriera del trio “a fasi” sia solo una comodità formale) e molto diversi dal resto della loro produzione anche negli strumenti adottati: per la prima volta i Rush si avvalevano di un uso massiccio di sintetizzatori, utilizzati già sì da A Farewell to Kings in poi (per dovere di cronaca, c’è anche un mellotron in Tears in 2112, suonato però non da Geddy Lee, e l’intro della title track dello stesso album è ricavata da suoni sintetizzati distorti), ma mai in modo così deciso e strabordante.
Il lavoro si apre con la canzone destinata a divenire simbolo della generazione di fan dei Rush a seguire: Subdivisions, questo è il titolo del brano, riesce a sintetizzare in modo perfetto la nuova concezione dei Rush, e a livello di liriche e a livello di suono. Il brano si apre con un’introduzione di synth disposta a climax, nel culmine della quale irrompe ruggente la chitarra di Lifeson. È qui che inizia lo struggente testo, che parla dell’alienazione del giovane, corroso da una società invisibile ed emarginato perché non amava fare parte di un gruppo. Continua quindi la tematica della lotta sociale dell’uomo contro la comunità, incarnata prima da una minaccia esplicita, rappresentata dalla terribile dittatura dei sacerdoti dei templi di Syrinx (in 2112), poi dal nuovo eroe che non si vende per nulla al mondo, il nuovo Tom Sawyer (in Tom Sawyer) e infine una minaccia ben più subdola della prima, che agisce in modo nascosto e sottile, quella dell’ostracismo sociale.
Il brano si articola tra interessanti dialoghi tra tastiere e chitarra, in un mood freddo e malinconico (ciò che probabilmente fu anche dovuto all’inesperienza di Terry Brown a produrre suoni sintetizzati).
Il resto dell’album, tutto di interessante qualità, è in bilico tra mai troppo dimenticate reminiscenze progressive (come da The Weapon, seconda parte di Fear, dove la paura è descritta nella sua dimensione di arma per ferire), sferzate hard rock (come la sognante The Analog Kid) e le già citate influenze reggae, che in Digital Man, che tratta l’interessante tema dell’uomo digitalizzato, la fanno da padrone.
Trova spazio anche una commovente ballata, Losing It, alla quale partecipa Ben Mink come ospite al violino elettrico. L’album mette in mostra in particolar modo la fenomenale figura di polistrumentista di Geddy Lee, che dal vivo tramite l’utilizzo di apposite pedaliere riesce ad elaborare le parti di basso e quelle di tastiere simultaneamente in modo preciso e perfetto. Peart inoltre iniziò a suonare percussioni elettroniche.
Subdivisions in particolare fu un enorme successo in quanto la maggior parte del giovane fanbase dei Rush si riconosceva in essa.
“Avremmo potuto rifare Moving Pictures – afferma la band circa il cambio di rotta – ma eravamo troppo curiosi, troppo insoddisfatti del presente e il fatto di aver avuto successo non era un motivo per fermarci”. Tuttavia i dissapori con il produttore Terry Brown, che esprimeva con fermezza la volontà che i Rush rimanessero una band acustica, continuarono e si inasprirono ulteriormente, fino a terminare con la consensuale dipartita di quest’ultimo. I Rush si trovavano ormai nel 1983, con un ampio bagaglio musicale alle spalle e con un produttore di grande fama licenziato.

Fu allora che entrò nella vita dei Rush il produttore che avrebbe avviato il combo canadese verso la loro fase più elettronica che si potrebbe definire, con qualche licenziosità, pomposa, ossia Peter Henderson. La scelta, a rigor di cronaca, era inizialmente ricaduta su Steve Lilywhite il quale vantava già ampie conoscenze nel campo della produzione musicale.
Henderson non conosceva affatto i Rush ed era completamente assorbito dalla scena musicale inglese anni ’80, pertanto era impossibile che non cercasse di avvicinare i Rush ancora di più a quelle sonorità e all’uso delle tastiere, ciò che i Rush fecero sia pur mantenendo il loro inconfondibile tocco.
Fu così che i Rush, alla pubblicazione di Grace Under Pressure (Mercury, 1984) si alienarono il beneplacito di molti loro fan della vecchia guardia, che sin da Signals avevano parzialmente storto il naso. Questo album non propose in verità nessuna idea rivoluzionaria e non faceva altro che riproporre le idee del capitolo precedente con maggiore consapevolezza e convinzione: maggiore e più spigliato uso delle tastiere, influenze reggae più marcate, percussioni elettroniche più presenti.
Il disco si apre con uno dei maggiori classici della band, nonché uno dei brani simbolo della fase elettronica dei Rush, ossia Distant Early Warning. Il brano, tra i migliori dei canadesi, gioca su un interessante dialogo tra un’ariosa sezione reggae ed uno scatenato refrain hard rock, il tutto intervallato da interessanti momenti di Lee alla tastiera, che accompagna in ogni momento la chitarra, prendendo sulla quale a volte addirittura il sopravvento. È presente anche la prima parte della trilogia Fear, The Enemy Within, pezzo, giocato su un attraente groove di ispirazione reggae e funk, che tratta la paura come un vero e proprio nemico interiore da combattere e che può piegare l’uomo in ogni momento.
In toto Grace Under Pressure, nonostante la profonda divisione che creò tra i fan, riscosse lo stesso successo del suo predecessore, ma generò anche aspri conflitti tra Alex Lifeson e Geddy Lee circa la presenza delle tastiere: per il primo, se proprio presenti, quelle non dovevano essere che un riempitivo d’accompagnamento; per il secondo, le tastiere elettroniche dovevano diventare un vero e proprio “quarto Rush”, ciò che con la grandissima abilità di Geddy Lee (e dello stesso Lifeson) alle pedaliere non sarebbe stato affatto impossibile. La chitarra però in questo modo perdeva sempre maggiore rilievo malgrado venisse effettata in modo sempre più elegante.

Il successivo Power Windows (Mercury, 1985) anziché mitigare, possibilmente inasprì ulteriormente il conflitto. Reclutato un altro produttore, Peter Collins, l’album del 1985 rappresenta senza alcun dubbio lo sforzo più pomposo, più esagerato e radio-friendly della band, ma non per questo meno interessante, anzi.
Le tastiere sono più presenti che mai, e ormai ricoprono un ruolo tutt’altro che marginale; al contrario, nella maggior parte dei casi sovrastano in modo deciso la chitarra di Lifeson, che è sovente relegata ad un ruolo di poco più che accompagnamento. Andy Richards si occupò di parti di tastiera addizionali e abbondarono cori ed orchestrazioni, rendendo l’album “iperprodotto”, a dire di Neil Peart. Se nel tessuto musicale i Rush in questo album si lasciano influenzare dal lato più orecchiabile della musica dell’epoca, ciò non avviene invece per i testi, che restano sempre su livelli d’eccellenza, passando dalla quotidiana ossessione in The Big Money fino ad una profonda disquisizione sul mistero della musica nei ritmi quasi africani di Mystic Rhythms. Ed anche gli arrangiamenti dietro un sound pomposo e luccicante nascondono in realtà brani complessi, schematici e mai costruiti in modo ovvio. A livello tecnico anche i Rush si tengono una spanna sopra il synthpop a cui sembrano essersi così pesantemente ispirati (basti pensare al rapidissimo basso su The Big Money). In definitiva, ben nascosto da arrangiamenti barocchi e volutamente esagerati, Power Windows cela un album maturo, lucido e ragionato e non il salto nel vuoto che tutti vollero vedere, non il “vendersi” che tutta la critica sembrò scorgere nel prodotto.
L’album danneggiò ulteriormente l’amicizia tra Lee e Lifeson dato che il secondo di questi aveva mostrato esplicite difficoltà a seguire la direzione in cui lavorava la linea melodica della tastiera (mai, infatti, così protagonista), ma il primo non voleva rinunciare alla sua doppia veste di bassista e tastierista.

Hold Your Fire (Mercury, 1987) tuttavia sembrò rappresentare un momento di calma e quiete nella carriera del gruppo: sebbene le tastiere restino ancora ben presenti (con ancora Richards fermo al suo posto di turnista), il sound appare notevolmente alleggerito e tranquillo, con un Lifeson leggermente più in evidenza e delle tracce in genere molto più sobrie (appaiono tracce come Time Stand Still o Tai Shan quasi “spirituali”, ispirate, specialmente l’ultima, a suoni tibetani ed orientali). A livello di songwriting la stessa band affermò di rendersi conto di “star vivendo una metamorfosi”, cioè che il loro stile di scrittura si stesse muovendo dal rock verso territori quasi jazz, più delicate. La III fase del gruppo fu rappresentata dal grande album live A Show of Hands (Mercury, 1989), registrazione che presentava una setlist (eccezion fatta per Closer to the Heart) basata unicamente sulla produzione del gruppo dal 1982 al 1987, proponendo pezzi come Subdivisions, Distant Early Warning o Manhattan Project.
Da lì i Rush, intuendo con un perfetto tempismo che anche l’era del synthpop era sul punto di volgere al termine, compresero che era ora di virare ancora una volta verso nuovi lidi. L’era anni ’80 si chiuse definitivamente anche cambiando etichetta; dopo un sodalizio durato ben quindici anni, i Rush decisero di non rinnovare il contratto con la storica casa discografica per firmarne un altro, probabilmente più remunerativo, con la Atlantic Records.

In verità i “nuovi lidi” in questione furono molto più noti di quanto non sembrassero: sebbene in Presto (Atlantic, 1989) resistano ancora echi del sound ottantiano, i Rush in pezzi come Show Don’t Tell si riavvicinano all’hard rock delle loro radici, anche se ormai le incertezze da giovani cloni dei Led Zeppelin sono completamente scomparse; l’hard rock dei Rush è rielaborato in chiave moderna e personale. L’idea di un ritorno alle origini era anche pienamente supportato anche dal produttore Rupert Hine, il quale riteneva che fosse ingiusto che “uno dei pochi power trio storici rimasti sia adombrato da una tastiera”. E fu così che la band iniziò a tenere in cantiere l’idea di tornare al vecchio hard rock, sebbene con tutte le modifiche radicali di cui sopra.

Roll the Bones (Atlantic, 1991) è il saluto dei Rush al nuovo decennio, e risulta notevolmente più asciutto di tutti gli album che lo precedono. La opener, Dreamline, possiede un tiro ed una qualità che non si notavano nei precedenti album, se non in rari sprazzi (come Turn the Page in Hold Your Fire). Roll the Bones mostra la voglia del trio di guardare avanti e di non vivere dell’ombra di sé medesimi e ciò è anche dimostrato dall’ispiratissima title track, un intelligentissima accoppiata di classico hard rock con un intermezzo completamente hip hop (tra l’altro, con un Geddy Lee dalla voce grave e quasi irriconoscibile). Altra traccia che denota una voglia di ritorno al passato è la strumentale Where’s My Thing?, non tanto per la qualità intrinseca del brano (non eccelsa, ad onor del vero), quanto perché l’ultimo pezzo strumentale della band era stato YYZ, edito sulla vecchia gloria Moving Pictures. Tuttavia ancora ai Rush pareva che mancasse qualcosa. E quel qualcosa fu identificato, oltre che ad un colpo di coda degnissimo di nota nel songwriting, nella scarsa potenza data alla chitarra di Lifeson che, una volta tornata al comando della sezione melodica, aveva sofferto di una produzione piuttosto debole.
Richiamato all’ovile il produttore Peter Collins, questo si convinse che Presto e Roll the Bones non avessero sound né carattere e, deciso più che mai a produrre un album quanto più potente, gettò in mano a Geddy Lee il suo vecchio basso Fender, costringendolo a suonare con amplificatori più datati in modo che tutto risultasse più potente e meno sintetizzato. Lifeson, inizialmente trionfante, patì paradossalmente quanto il compagno il ritorno alle origini imposto da Collins: se Lee aveva introdotto le tastiere, anche Lifeson sfruttò le nuove tecnologie effettando in modo sempre più deciso le sue sessioni soliste di chitarra, ciò che Collins vietò categoricamente.

Il parto di questo “ascetismo musicale” fu Counterparts (Atlantic, 1993), che si rivelò secondo Geddy Lee “l’album che si erano aspettati sin dall’inizio”.
L’album è caratterizzato da un ritorno all’ hard rock, che viene però ammorbidito dall’ottimo utilizzo delle tastiere e da un lavoro chitarristico che non dimentica il periodo precedente. Il sound è a tratti molto introspettivo come si deduce dall’opener Animate o dalla malinconica ballad Nobody’s Hero. Toni più allegri li possiamo riscontrare nell’ottima Between Sun & Moon, che ruota intorno a un chorus molto convincente e all’ottimo lavoro del solito Peart. Le linee di basso di Lee vengono esaltate dalla violenta Stick It Out, tra i brani più violenti e rabbiosi della loro carriera, in accordo con la successiva Cut to the Chase che partendo da un arpeggio molto suggestivo esplode poi in un potente riff dai rimandi metal. Il lavoro eccezionale di Lifeson si evidenzia in tutta la sua complessità anche in Double Agent dove, tra tempi dispari e fraseggi dall’alto tasso tecnico, tira fuori una prestazione di primo livello. Nota di merito, infine, per l’ottima strumentale Leave that Thing Alone, che esalta le individualità dei singoli non degenerando però in un mero esercizio di tecnica (ancora una dichiarazione “di guerra” a La Villa Strangiato, brano con cui i Rush manterranno per tutta la carriera un rapporto sia di amore, sia quasi di “paura”: non scorderanno mai l’estenuante tour-de-force). Partito con la chiara intenzione di riportare in auge l’antico sound, Counterparts si trasforma in un lavoro del tutto originale e che contamina il vecchio con il nuovo.

Nel frattempo Neil Peart, già al tempo una vera e propria istituzione della batteria rock, ebbe modo di modificare appieno il suo approccio alle pelli. Già da tempo avvertiva, forse anche a causa delle sue arcinote manie di perfezionismo, un senso di insoddisfazione: pur essendo preciso come un metronomo grazie all’esperienza con sequencer e click tracks, non si sentiva affatto flessibile come avrebbe desiderato (come invece si sentiva negli anni ’70); sentiva, in poche parole, anche lui di essersi “automatizzato”; avvertiva anche lui l’esperienza degli anni ’80 come disastrosa.
La possibilità di risolvere questo malessere gli giunse dopo che fu stato invitato a New York a suonare un assolo di batteria in onore del compianto batterista jazz Buddy Rich; qui Peart ebbe modo di conoscere lo storico batterista jazz Freddie Gruber, che si offerse di dargli delle lezioni per fargli recuperare scioltezza. Gruber affermò che fu molto facile e divertente lavorare con Peart perché egli era calmo ed equilibrato.
In pratica essi non suonarono mai la batteria, ma preferirono discorrere su quali fossero i movimenti più corretti da assumere. Per Gruber mani e piedi nel suonare la batteria dovevano formare una specie di danza, lontana da qualsiasi forzatura e all’insegna della totale armonia.

Lee e Lifeson, quando iniziarono a suonare per il successivo Test for Echo (Atlantic, 1996), non si resero conto della profonda mutazione del loro compagno di band, che sembrava loro fondamentalmente lo stesso di prima. Nondimeno, Peart era felice ed ispirato, ciò che giovò a tutto il trio in sede compositiva. La maggior parte delle tracce su questo album, infatti, appaiono fortemente ispirate e dal punto di vista lirico e da quello musicale. La title track, un’epica composizione hard rock circa l’incipiente crescita dell’importanza dei mass media, irrompe come opener descrivendo la “vertigine del video”. La linea compositiva scorre tra tracce aggressive come Driven e placide ballate come Resist in tutto e per tutto molto simile a quella del predecessore, pur non raggiungendone gli apici in qualità. In particolare Lifeson afferma in modo deciso e totale il ruolo predominante della chitarra, ciò che è riflesso (come lo fu per l’imposizione dei synth dal 1978 in poi) anche dagli show dal vivo, scevri da qualsiasi intervento tastieristico e con una maggiore e più decisa distorsione della chitarra. I Rush dovevano ancora conoscere la loro massima tragedia, che avrebbe posto la parola “fine” alla loro carriera per un buon lustro.

La figlia di Neil Peart perse tragicamente la vita in un incidente automobilistico. Una delle ragazze dell’ufficio management riferì la cosa ad Alex Lifeson, il quale rimase pietrificato, basito alla notizia. Presto la notizia si diffuse in tutto l’ambito della band; “Fu allora – disse Ray Danniels circa l’accaduto – che il dolore si abbatté su di noi sotto forma di emozioni mai provate prima. Tutto ciò che riguardava la band finì in quel momento”.
Peart e sua moglie Jackie non sapevano come affrontare l’accaduto e dunque decisero di lasciare Toronto per fuggire dai ricordi. Di lì a poco però anche Jackie si ammalò gravemente, fino a morire.
Dopo quest’ultima disgrazia Peart si sentì perduto e decise quindi di partire in sella alla sua moto per un’enorme tratta americana, dal Québec fino alle regioni artiche, attraverso l’Alaska e poi giù per il Messico, in una sorta di “riposo sabbatico”, ciò di cui, a suo dire, egli stesso aveva bisogno.
Tutti i suoi amici erano intanto preoccupati per lui perché sarebbe potuta succedergli qualsiasi cosa.

Nel frattempo nel 1998 veniva dato alle stampe quello progettato come ultimo album live dei Rush, un monumentale triplo cd dal nome Different Stages (Atlantic, 1998), che immortala i Rush nel loro ultimo tour, con la celebrazione della loro IV fase, quella del ritorno all’hard rock. È presente inoltre solo in questo live una versione integrale di 2112 (con la “parte perduta”, quell’Oracle: The Dream che non era stata mai suonata sin dal 1976), suonata nel tour di Test for Echo (del 1996) per festeggiarne il ventennale. È inoltre presente un terzo disco bonus, probabilmente un regalo per i fan (ulteriore prova che i Rush erano ben convinti di essere al capolinea col rilascio di quel lavoro dal vivo), tratto da un concerto tenutosi a Londra nel 1978, sul finire del tour di A Farewell to Kings.

Nel frattempo Peart continuava il suo viaggio imperterrito, passando per città secondarie e dormendo in motel di second’ordine. Addirittura egli conferma di non essere stato riconosciuto neanche una volta. Le possibilità che il “progetto Rush” potesse tornare in auge tuttavia parevano sempre più remote a tutti i membri della band, management compreso. Tutti erano fermamente decisi a non riprendere se non fossero stati tutti, Peart compreso.
Intanto il batterista nel suo viaggio incontrò anche la sua futura moglie, Carrie, che lo aiutò ad interpretare le sue effettive volontà, e cioè che volesse ritornare al lavoro.
Nondimeno, il batterista temeva che non sarebbe stato più capace di suonare come un tempo: cinque anni di inattività restavano molti.
L’idea di rimettere insieme i “cocci” della band venne timidamente in modo quasi spontaneo da tutti e tre i membri. Lee e Lifeson, d’altronde, avevano continuato ad improvvisare insieme (il loro metodo di composizione preferito) in previsione di un’eventuale riunione, sebbene le speranze fossero in caduta libera.

Peart, a suo stesso dire, provava rabbia e confusione nel sedere sul drumkit, gli stessi sentimenti provati dai compagni ai rispettivi strumenti. È sotto il segno della rabbia e della voglia di rivalsa che nasce, come un inaspettato fulmine a ciel sereno, il devastante Vapor Trails (Atlantic, 2002). La rabbia del drummer si condensa subito nella violentissima intro dell’opener A Little Victory, dove regna una velocissima sfuriata di doppia cassa.
Il gruppo si dimostra presente e rabbioso, ciò che è dimostrato dalla produzione, volutamente rozza ed impastata (anni luce lontana anche solo dalla pulizia dei primi dischi con Terry Brown, e si tratta di anni ’70), e dalla totale assenza di assoli di chitarra e di tastiere. L’album è essenziale anche nei suoi momenti più melodici, come Earthshine o The Stars Look Down. È presente inoltre anche Ghost Rider, brano scritto da Neil Peart in memoria e ricordo del suo lungo viaggio. Infine si dà un prosieguo all’apparentemente chiusa saga Fear con Freeze, un brano che tratta delle reazioni di fronte alla paura di qualcuno, cioè se fuggire via o se affrontarle insieme al soggetto in questione.
L’album in toto risulta grezzo, molto pesante nel suono e fortemente penalizzato dal lavoro praticamente assente di post-produzione e divide completamente in due i fan e la critica, che temono che i Rush possano assumere in via definitiva queste coordinate stilistiche.

Il ritorno sul palco fu ancora più difficile da sostenere per Neil Peart, e la prima data del tour di Vapor Trails fu una delle poche in cui i tre si abbracciarono prima dell’esibizione, in segno di tensione, affetto e rispetto reciproco. L’apice del tour fu raggiunto nelle zone del Sud America, in particolar modo in Brasile, dove toccarono l’apice di 60.000 spettatori. Questo live fu poi riassunto nel monumentale Rush in Rio (Atlantic, 2003), un altro triplo cd che presenta una scaletta variegata che cerca di ripescare un po’ in tutti i vari momenti della carriera del trio.

Successivamente venne pubblicato un album di cover, Feedback (Atlantic, 2004), al quale seguì il famoso tour del trentennale, denominato R30; per l’occasione i Rush registrarono anche un medley strumentale speciale, formato da diversi loro brani storici (tra cui Anthem, Bastille Day o Cygnus X-1 Book II: Hemispheres); il tour venne immortalato con un ennesimo live, R30 Tour (Atlantic, 2005).
Nel 2007 fu tempo per i Rush di chiudersi di nuovo in studio e qui, con il loro Snakes & Arrows (Atlantic, 2007), dimostrarono a fan e critica di aver saputo incanalare la rabbia magmatica di Vapor Trails in un disco pienamente ispirato, ricco di spunti presi dalla musica orientale (privi, però, della dimensione ascetica di Hold Your Fire) e con una produzione precisa e molto pulita.
Il lavoro fondamentalmente è un hard rock privo di troppe pretese: la opener Far Cry risulta un concentrato di potenza e freschezza, mentre in brani come Armor and Sword e Workin’ Them Angels (forse la migliore dell’album) emergono ambizioni, con forti influenze orientali (come si può notare nell’assolo di mandola).
Abbiamo inoltre ben tre tracce strumentali, tra cui Malignant Narcissism, la meno riuscita, in cui Geddy Lee fa per la prima volta uso di un basso fretless, e Hope, un breve lavoro alla chitarra acustica firmato interamente da Lifeson.
L’opera è un successo che riesce a mettere d’accordo tutti quelli che erano stati divisi da Vapor Trails: i Rush sono effettivamente tornati, più in forma che mai.
L’album è immortalato in un ennesimo live, Snakes & Arrows: Live (Atlantic, 2008), dove la scaletta mischia un po’ i classici della band con tracce dall’ultimo lavoro.
In ultima analisi nel 2010 e nel 2011 inizia un nuovo tour della band, il Time Machine Tour, che ha il dovere di festeggiare il trentennale del capolavoro Moving Pictures della band riproponendo l’album del 1981 in versione integrale (con anche una The Camera Eye che non veniva eseguita sin dal 1982). Il tour è celebrato con Time Machine Tour: Live in Cleveland (Atlantic, 2011), l’album live meglio prodotto dal trio, che mostra un gruppo ancora in grado di stupire e ancora con tanta voglia di essere presenti sulla scena.
È in programma un nuovo album per il 2012 dal titolo Clockwork Angels, di cui per ora abbiamo solo un singolo uscito il primo giugno 2010, ossia Caravan/BU2B, che propone ancora un fresco hard rock, stavolta privo delle influenze orientali del suo predecessore: i Rush vogliono reinventare un’ennesima volta la loro formula hard rock standard.

Per riassumere in poche parole la loro intera carriera, in conclusione, i Rush non si sono mai tenuti estremamente lontani dalla corrente mainstream, però in qualche modo ne sono sempre rimasti fuori, come una barca che vaga ad un estremo di un fiume, senza esserne immenso nel suo centro.
O, per usare un’espressione mutuata dallo stesso Geddy Lee: “Mi piace pensare che siamo la cult band più popolare al mondo”.

Blaze. (tranne la parte su Counterparts, opera di Paul)


Steel-Heavy Metal Machine

Artista: Steel

Album: Heavy Metal Machine

Genere: Heavy Metal/Power Metal

Anno di Pubblicazione: 1998

Etichetta: /

Probabilmente questo piccolo EP, della durata di poco più di un quarto d’ora, non sarebbe mai giunto nelle mani del sottoscritto se la mole degli artisti impegnati in questo evidente divertissement non fosse tanto enorme quanto impensabile.
Pare che nel 1996, durante la sessione di registrazione di Morningrise, capolavoro degli Opeth datato lo stesso anno, la band quasi al completo (Mikael Åkerfeldt alle chitarre, il secondo chitarrista Peter Lindgren al basso e Anders Nordin al drumkit) abbiano deciso, insieme al loro produttore Dan Swanö, artista molto impegnato nella scena death metal svedese e coetaneo di Åkerfeldt, di incidere tre tracce di puro heavy metal, in una specie di tributo alle origini.
Chiunque conosca la voce melodiosa e calda di  Swanö non lo riconoscerà su questo brevissimo EP: nelle prime due tracce utilizza infatti un acidissimo falsettone, ispirato su tutti ad Udo Dirkschneider degli Accept in alcuni punti. L’EP risulta una particolare fusione tra un tributo all’heavy metal anni ’80 in generale e una parodia dello stesso, decisamente e volutamente demodé in ogni suo punto, e nella musica e nei testi. Il falsetto di Swanö è intenzionalmente pomposo, grottesco, goffo in molti momenti, così come lo sono i testi.
Inoltre  Åkerfeldt si trasforma da chitarrista posato e ragionato, capace di arpeggi raffinati e di riff incalzanti, in un raffazzonato chitarrista hard ‘n’ heavy, fautore di assoli tecnici ma scanzonati ad un tempo (tra cui un’interessante citazione ad Eruption dei Van Halen all’inizio dell’assolo della title track).
Non manca anche una ballata, probabile tributo agli Scorpions, dove finalmente  Swanö lascia prorompere il lato sensuale della sua calda voce in un’appassionante intro di tastiere, ma questo solo fino al ritornello, con nuova esplosione di acuti.
Il divertissement si chiude con una cover di The Green Manalishi (and the Two-Pronged Crown) dei Fletwood Mac, resa celebre nel mondo del metal dalla grande versione dei Judas Priest, datata 1979.
In definitiva quattro tracce volutamente esagerate a metà tra l’ironia e il tributo che tuttavia convincono nel loro piccolo. Nulla di imperdibile, questo EP è trascurabile se si ignorano i nomi che vi hanno preso parte. Il riffing, in ogni caso, resta, sebbene ancorato ancora ai cliché compositivi anni ’80, di qualità.

Voto: 6/10

Blaze.


Ultravox-Ultravox!

Artista: Ultravox

Album: Ultravox!

Genere: New Wave/Post-Punk

Anno di Pubblicazione: 1977

Etichetta: Island

Ci troviamo alla fine degli anni ’70, quando la New Wave non aveva ancora raggiunto la piena maturità. È ancora una volta dal genio e dalle intuizioni di Brian Eno (che, tra altri, ha prodotto la compilation cult No New York oppure il debutto dei particolarissimi Devo) che questo album vede la luce. Tale debutto degli Ultravox poggia essenzialmente su tipologie di brani piuttosto diverse tra loro, che però a modo loro hanno già fatto o faranno storia. Sono presenti, ad esempio, ancora classiche sfuriate punk rock (come la opener Saturday Night in the City of the Dead) prive di qualsivoglia pretesa. Tuttavia il primo brano davvero “emblematico” (sebbene già la precedente Slip Away procedesse in una direzione simile) del cambio di rotta è la lunga I Want to Be a Machine. Sviluppando in una personalissima direzione in climax il romanticismo glam dei primi Roxy Music (che vedevano tra l’altro l’apporto dello stesso Brian Eno) gli Ultravox entrano di diritto nel discorso New Wave che proprio in quegli anni stava prendendo forma, con sfuriate di violini ed arpeggi alternati a fasi più enfatiche. Sulla stessa falsariga procede The Wild, The Beautiful and the Damned. Appaiono anche i primi, fruttiferi rimandi al reggae bianco in quella che forse è la traccia più sui generis del platter, cioè Dangerous Rhythm. La traccia si apre (e si chiude) con un ipnotico groove sul quale poi va a poggiare la voce, stavolta delicata e soffusa di John Foxx. Queste influenze si sarebbero rivelate molto importanti per lo sviluppo della New Wave (addirittura i Rush degli anni ’80 si sarebbero fatti influenzare dal reggae di Dangerous Rhythm, su stessa ammissione del batterista Neil Peart) ed anche del synthpop, ad essa d’altronde molto legato, per via della leggerezza di suono e della volontà ferma di uscire dal decennio 1970 con una musica meno impegnata.

Voto: 8/10

Blaze.


Mahavishnu Orchestra-The Inner Mounting Flame

Artista: Mahavishnu Orchestra

Album: The Inner Mounting Flame

Genere: Jazz-Rock

Anno di Pubblicazione: 1971

Etichetta: C.B.S./Columbia

Agli albori degli anni ’70, se non perfettamente definito, il jazz-rock (o jazz fusion che dir si voglia) aveva già in ogni caso ricevuto le prime nette coordinate stilistiche: un jazz suonato con strumentazione elettrica e con attitudine quasi “rock”.
Indubbiamente un lavoro, sebbene non essenziale, molto incisivo nella scena è questo The Inner Mounting Flame, debutto del 1971 della Mahavishnu Orchestra, band del chitarrista John McLaughlin, indubbiamente uno dei più dotati tecnicamente al mondo.
Il disco si articola in otto tracce di media durata, divise nettamente in momenti più aggressivi (tra i quali probabilmente l’acme è raggiunto dalla scatenatissima The Noonward Race) ed invece altri più calmi ed intimistici. Per tutto l’album emergono perlopiù le personalità di McLaughlin, dal tocco pulitissimo e di una precisione invidiabile, e di un giovanissimo Billy Cobham, ritenuto a ragione da molti il miglior batterista sul pianeta, che già su questo album, il suo debutto discografico, mostra una capacità tecnica di tenere i tempi più sghembi e veloci senza grandi difficoltà. In sostanza un ottimo album, che forse paga lo scotto di eccessivi tecnicismi qua e là ma che in ogni caso non rappresenta ancora la degenerazione del genere in una mostra continua di doti tecniche fuori dal comune, che a lungo andare fuori dal comune non si stanno rivelando più.

Voto: 8/10

Blaze.


Rush-Time Machine 2011: Live in Cleveland

Artista: Rush

Album: Time Machine 2011: Live in Cleveland

Genere: Hard Rock/Progressive Rock

Anno di Pubblicazione: 2011

Etichetta: Roadrunner Records

Ci sono gruppi di cui è sempre un piacere scrivere, perché si possono tranquillamente dare per scontate la qualità delle loro produzioni e la professionalità totale. È un po’ per questo motivo, un po’ perché si tratta comunque di un’uscita di quest’anno, che ho deciso di dedicare un post all’ultima fatica dei Rush dal vivo, questo Time Machine 2011: Live in Cleveland. Indubbiamente (il consiglio si concentra tutto sulla versione doppio cd e non su quella dvd del lavoro) la prima cosa da cui si è colpiti sin dalle prime note di The Spirit of Radio (che, appunto, apre lo show) è la totale pulizia del suono, come forse in un live del trio non si era mai vista (solo lo storico Exit… Stage Left del 1981 ci si avvicinava ma con meno convinzione e potenza, ed in modo quasi artificioso e innaturale; anche gli ultimi Snakes & Arrows live ed R30 vantano una produzione eccellente, ma in ogni caso meno incisiva di questo live). Gli strumenti (specialmente il basso di Geddy Lee) si distinguono in modo preciso e pulito, ciò però senza dare la sgradevole sensazione di un lavoro manomesso in studio, anzi; il lavoro appare tutto sommato ricco di genuinità. La setlist, che consta in tutto di ben ventisei momenti per un totale di oltre due ore di eccellente musica, vanta estratti da tutti i periodi del gruppo: trovano posto tre brani dall’ultimo album in studio, Snakes & Arrows (come la dirompente Far Cry o, inedita dal vivo, la commovente Faithless), altri da album della loro fase più elettronica e “pop” (come Time Stand Still o Marathon), altri ancora dal loro ritorno all’hard rock riletto in chiave moderna negli anni ’90 (tra le quali ci si stupisce di avere Presto, un ottimo brano forse troppo dimenticato) ed infine anche brani tratti dagli albori della loro carriera (come i primi due, immancabili, movimenti della storica 2112 oppure Working Man, estratta addirittura dal loro primo lavoro datato 1974). Ma il momento centrale (e probabilmente il picco) dell’album è sicuramente segnato dalla riproposizione, al fine di festeggiarne il trentennale, per intero di Moving Pictures, album del 1981 a cui i Rush sono molto affezionati e considerato dalla maggioranza dei fan il loro migliore sforzo; in tal modo trovano posto anche altri classici della band, come Tom Sawyer, Limelight e YYZ, oltre ad altri pezzi non riproposti ormai da tempo (come Vital Signs o The Camera Eye, non riproposta addirittura dal 1982). In tutto questo trovano anche spazio i due brani del singolo “Caravan/BU2B”, uscito nel giugno dell’anno scorso, brani che ritrovano una linfa insperata in sede live e che si confermano come solidi punti di partenza per Clockwork Angels, la prossima uscita in studio dei Rush, programmata per i primi mesi del 2012 e di cui Caravan e BU2B sono, appunto, i pezzi iniziali. Impossibile non evidenziare, inoltre, la prestazione magistrale del trio, sul quale sembra che gli anni non abbiano influito più di tanto: Geddy Lee continua a svolgere il suo triplo mestiere di vocalist, bassista e tastierista senza accusare il peso del tempo, Alex Lifeson non accenna a perdere il suo buon gusto e la sua pulizia in fase solista mentre Neil Peart non ha perso il suo tocco leggiadro (come mostrato, tra l’altro, negli imponenti otto minuti di Moto Perpetuo, ossia il leggendario ed immancabile assolo di batteria).
In particolare i guizzi maggiori, tuttavia, provengono da Geddy Lee, che mai era stato così intraprendente nelle sue linee di basso, eccezionalmente strabordanti ed onnipresenti (basti pensare alla velocità delle improvvisazioni su La Villa Strangiato oppure all’assolo di basso su Leave That Thing Alone); inoltre nella sua veste di vocalist Lee sembra aver accettato i suoi limiti vocali, e infatti l’effetto è di un cantato puramente armonico, dove il cantante è conscio del fatto che su alcuni punti può permettersi di alzare mentre altrove deve tenersi su note più basse (esempio mirabile di ciò può vedersi in The Temples of Syrinx, dove la performance vocale non risulta una sorta di sforzo strozzato nel tentativo di raggiungere note particolarmente alte, ma invece una totale riscrittura della linea per venire incontro alle esigenze della voce, che appare ferma e sicura).
Ultimo appunto, ancora una volta positivo, a questo prodotto è l’ingente quantità di “chicche” inedite, tra cui si distinguono un’outro alternativa per Closer to the Heart, un’intro alternativa per La Villa Strangiato (probabilmente, tra l’altro, nella sua miglior versione di sempre, con linee di basso improvvisate in alcuni punti e priva dei fastidiosi interventi vocali di Lifeson, che avevano preso piede sin dal 2003) ed un’intro reggae per Working Man di grandissima suggestione e, un’ennesima volta, con una performance di Lee al basso decisamente accattivante. In toto, posso affermare che questo live non è un semplice doppio dischetto per completisti simile in tutto e per tutto ai suoi cugini, ma anzi mostra ancora una volta la voglia di vivere e progredire del gruppo, che non ha paura di apportare addirittura modifiche ai loro classici intramontabili e di accostare pezzi relativamente recenti ad appuntamenti ciclici nelle scalette della band come The Spirit of Radio o Freewill. Il tutto accompagnato da una produzione sopraffina e da una setlist invidiabile. Questo live non fa che alimentare le certezze che il prossimo album, come ho già detto, in uscita nei primi mesi del prossimo anno, sarà ancora una volta pieno della qualità che i Rush hanno saputo dimostrare nel corso degli anni. Eccellente.

Voto: 8/10

Blaze.


Opeth-Orchid

Artista: Opeth

Album: Orchid

Genere: Progressive Death Metal/Melodic Death Metal

Anno di Pubblicazione: 1995

Etichetta: Candlelight Records

Al giorno d’oggi gli Opeth sono, nonostante i generali pareri negativi sulla loro ultima fatica, Heritage, considerati unanimamente uno degli ensemble death metal più capaci della scena. Dall’immaginario collettivo, il loro principale merito musicale è quello di aver unito due verbi apparentemente inconciliabili: quello del death metal e quello progressivo. In verità gli Opeth nel corso della carriera si sono “limitati” a far fruttare semi già sparsi da alcune delle prime band melodic death metal (mi verrebbe da pensare di getto agli Edge of Sanity di Dan Swanö, di gran lunga la massima ispirazione per i primi Opeth), ma ciò non toglie che il gruppo di Mikael Åkerfeldt rappresenti in un certo senso un punto di frattura con la naturale concezione di death metal dell’epoca. Se il gruppo è prevalentemente famoso per il suo approccio spesso intimistico e delicato (un grande esempio ne è dato da Harvest, brano di Blackwater Park), a volte ci si dimentica che le radici del gruppo, sebbene non drasticamente lontane, siano in realtà un po’ più in là, verso un death metal dal sapore più epico e calzante, sulla scia, appunto, degli Edge of Sanity (non a caso Swanö sarà il produttore dei primi due album e sarà creditato da Åkerfeldt come “our guide”, la nostra guida), ed è appunto del debutto della band, Orchid, che tratta il consiglio in questione.
L’album si articola in sette tracce, di cui cinque lunghe composizioni (tutte si attestano tra i dieci e i quindici minuti) e due interludi strumentali, Silhouette, un commovente brano suonato tutto al pianoforte dal batterista Anders Nordin, e Requiem, un brevissimo pezzo di chitarra acustica. Per quanto riguarda i pezzi più lunghi e complessi, invece, sono perlopiù formati da un’efficace alternanza tra riff epici e possenti e delicati arpeggi folk, che potrebbero ricordare in più di un punto i primissimi Ulver. Mikeal Åkerfeldt, di suo conto, non è ancora molto abile nelle growl vocals più gutturali, tipiche del death metal, e quindi preferisce optare per lo scream, ciò che rende l’album ulteriormente algido e potente (effettivamente le screaming vocals di Åkerfeldt sono al confine col growl e tra le più potenti nella scena); spesso in ogni caso il vocalist si concede a calde clean vocals, e questa sarà una costante di tutta la carriera del gruppo (anzi, in Damnation e nell’ultimo Heritage le death vocals sono del tutto assenti). Probabilmente non si può ancora parlare di progressive death metal in senso compiuto, eppure rappresenta un grande passo. Il death metal epico degli Opeth sarebbe proseguito ancora per un anno, raggiungendo il culmine nel capolavoro Morningrise, poi la band avrebbe iniziato a muoversi su lidi più personali.

Voto: 8/10

Blaze.


Quella Vecchia Locanda-Quella Vecchia Locanda

Artista: Quella Vecchia Locanda

Album: Quella Vecchia Locanda

Genere: Progressive Rock

Anno di Pubblicazione: 1972

Etichetta: Help!

Continua la carrellata di prog italiano con questo ottimo prodotto di hard rock progressivo datato 1972. Il concept, che tratta di un uomo che vive in orribili condizioni destinato a fare un mistico incontro che cambierà la sua vita e a fare tristi considerazioni sull’umanità, salvo poi rendersi conto in un enigmatico ed aporetico finale che era tutto un sogno, costituisce il tessuto ideologico del disco e, pur non brillando troppo per originalità, risulta non eccessivamente ortodosso. Se, quindi, a livello concettuale l’album risulta interessante, purtroppo il lavoro si perde nella qualità pietosa dei testi, spesso elementari e ripetitivi. Fortunatamente è la qualità musicale a compensare questa grave lacuna (altri gruppi come Area, Museo Rosenbach o Banco del Mutuo Soccorso si erano distinti anche per, oltre che alla proposta musicale fuori dal comune, la qualità quasi letteraria dei testi).
Musicalmente i Quella Vecchia Locanda appaiono come un convincente ensemble hard rock con diversi elementi sinfonici e folk, con grandi influenze dei Jethro Tull più progressivi (in particolare Il Cieco, in struttura e per l’assolo di flauto al centro, ricorda bene la ben più blasonata My God del capolavoro tulliano), anche se non mancano sferzate di rock duro (come Immagini Sfocate) e placide e riflessive ballate (qui non si può non distinguere Realtà, che tra l’altro ha anche un testo superiore alla media, sebbene comunque nulla di eccezionale, anzi). Ottima la scelta di inserire un violino fisso in formazione (suonato da Donald Lax) e convincente anche la prestazione vocale di Giorgio Giorgi, oltre al trascinante riffing di chitarra di Raimondo Maria Cocco, senza contare le eccellenti citazioni classiche di gran gusto del tastierista Massimo Roselli. Una citazione convincente, tra i migliori episodi del progressive italiano; se fosse stato leggermente più curato dal punto di vista del sound (se quest’ultimo fosse stato più personale, in breve) e se i testi fossero stati più ambiziosi, potrebbe essere annoverato tra i capolavori del nostro lustro progressivo.

Voto: 7/10

Blaze.


Pierrot Lunaire-Pierrot Lunaire

Artista: Pierrot Lunaire

Album: Pierrot Lunaire

Genere: Progressive Rock

Anno di Pubblicazione: 1974

Etichetta: It

Ecco un’ennesima perla nascosta nello sconfinato scrigno del rock progressivo tricolore. Il gruppo in questione proviene dalla zona di Roma e propone un progressive rock un po’ lontano dai lavori dei connazionali. La musica dei Pierrot Lunaire, infatti, è un irresistibile mix di folk medievale (come si può vedere dalla meravigliosa Il Re di Raipure), tentazioni sinfoniche (la opener Ouverture XV ne è un chiaro esempio), poche sezioni hard rock (principalmente nella traccia più lunga del disco, Sotto i Ponti, e nella closer Mandragola) e placida psichedelia (come si può notare dalla particolare Narciso).
I tre polistrumentisti non hanno un batterista ufficiale nelle proprie fila, e solo di tanto in tanto il chitarrista Vincenzo Caporaletti si concede alle pelli. In verità la maggior parte dei pezzi non utilizza percussioni e preferisce creare un muro sonoro tramite le sole chitarre (sempre acustiche tranne che in Sotto i Ponti e Mandragola) e moltissime tastiere (in questo senso basti sentire la sovrapposizione di tastiere disposte a climax in Ouverture XV o anche nell’inquietante Arlecchinata).
Dopo questo album i Pierrot Lunaire compariranno alcuni anni dopo con un lavoro ben più complesso ed intriso di avanguardia, Gudrun, senza purtroppo mai vedere il successo.

Voto: 7/10

Blaze.


The Beyond-Crawl

Artista: The Beyond

Album: Crawl

Genere: Progressive Metal

Anno di Pubblicazione: 1991

Etichetta: Harvest

Quando si sente parlare di progressive metal la stragrande maggioranza ha in mente una sorta di progressive rock più pesante e distorto, con saccheggi a piene mani dalla tradizione progressive anni ’70 (Yes, Genesis ed Emerson, Lake & Palmer in prima fila) e virtuosismi sfrenati anche nel riff più semplice, operato da molti gruppi tra i quali spicca sicuramente il nome dei Dream Theater (sebbene sia doveroso dire che questi ultimi hanno comunque apportato diverse modifiche al genere, producendo anche capolavori); al più, è possibile che si vada con la mente ai primi semi del genere, quindi ad un heavy metal appena più complesso (come i primi Queensrÿche) oppure sinfonico (quindi, Savatage); ancora si può pensare (ma in casi molto rari) alla particolare fusione di progressive rock e death metal operato da gruppi come Edge of Sanity ed Opeth ma, checché se ne dica, in quest’ultimo caso siamo già lontani dalla generale utenza prog, essendo entrati nel campo del metal estremo.
I The Beyond, band inglese dei primi anni ’90, avevano invece in mente un’idea ben diversa di progressive metal. Come prima cosa è necessario dire che Crawl, l’album consigliato, è ben scevro da virtuosismi fini a sé stessi, anzi; sotto questo punto di vista è veramente un album piuttosto sobrio, essendo gli assoli ridotti al minimo.
La sezione ritmica, in compenso, vaga per l’album come una vera e propria  “scheggia impazzita”: il batterista Neil Cooper è spesso incline a fantasiosi pattern di marcato stampo jazz, spesso di grande precisione ed alta velocità. Il riffing spesso è più accostabile al thrash metal che al progressive metal e i pezzi raramente superano la normale durata della forma canzone. La voce di John Whitby ha un timbro caldo e riesce a convincere pur senza volare su note sovracute (ciò che sembra essere diventata addirittura un’insensata condicio sine qua non per essere un buon vocalist metal). Probabilmente i picchi dell’album sono la opener Sacred Garden e soprattutto la trascinante One Step Too Far. Insieme ai The Beyond fuori dal metal estremo saranno all’inizio pochissime, poi molte (specialmente dopo le uscite di gruppi come Atheist, Death o Cynic) le band a tentare il connubio tra ritmiche jazz e metal, purtroppo spesso culminante in “banali” riff in tempi dispari accatastati l’uno sull’altro e un folle basso fretless più solista che ritmico, di enormi doti tecniche ma incapaci di regalare un brano anche solo vicino a questo grande lavoro dei The Beyond.

Voto: 8/10

Blaze.


Ulver-Shadows of the Sun

Artista: Ulver

Album: Shadows of the Sun

Genere: Ambient

Anno di Pubblicazione: 2007

Etichetta: Jester/The End

Sicuramente una delle proposte più interessanti degli ultimi due decenni, in grado di esplorare il concetto di gotico sfondando la barriera del singolo genere e virando in modo deciso dal black metal folkeggiante degli esordi al trip hop di Perdition City, all’avanguardia di Blood Inside e ora all’ambient di Shadows of the Sun. L’ambient, il black metal, il folk, il trip hop non sono altro che forme, che mezzi tramite i quali Garm, al secolo Kristoffer Rygg ci permette di esplorare il suo mondo, al centro del quale vige sempre il concetto del lupo. La opener di questo album, Eos (probabilmente il miglior pezzo del disco e tra i migliori della discografia), non a caso cita “Under the Moon the wolves gather“: il concept del lupo solitario, presente fin dal primo album (il capolavoro Bergtatt) non ha abbandonato Garm.
Analizzando più da vicino l’album musicalmente parlando si nota come il predominio sul sound sia stato assunto dal tastierista Tore Ylwizaker che, come afferma in un’intervista, per comporre insieme a Rygg il materiale di questo lavoro ha approfondito le sue conoscenze di musica classica per unirle al suo forte gusto elettronico. Il disco si presenta come un grande flusso di coscienza, con nove brani soffusi e rilassanti, formati quasi sempre dal connubio tra le onnipresenti ma mai invadenti tastiere di Ylwizaker e la profondissima voce di Rygg.  Probabilmente il lavoro più intimista della discografia; un viaggio dentro sé stessi.

Voto: 8/10

Blaze.


Agalloch/Nest-Agalloch/Nest

Artisti: Agalloch/Nest

Album: Agalloch/Nest (split 10”)

Genere: Folk

Anno di Pubblicazione: 2004

Etichetta: Infinite Vynil

Il prodotto in questione è un minuscolo split album della durata complessiva di 10 minuti, frutto di una collaborazione tra la band statunitense Agalloch e gli scandinavi Nest. Due brani, uno per gruppo, mostrano un folk ben suonato e fortemente rilassante e sognante, quasi interamente strumentale. Le chitarre acustiche la fanno da padrone. Non so se sarebbe possibile digerire un full length tutto su questo tenore, ma finché ci si assesta sui dieci minuti di durata, il piccolo split non ha neanche il tempo di annoiare.

Voto: 6/10

Blaze.