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Cynic-Carbon-based Anatomy

Artista: Cynic

Album: Carbon-Based Anatomy (EP)

Genere: Progressive Rock/Ambient

Anno di Pubblicazione: 2011

Etichetta: Season of Mist

I Cynic, band rivelazione del panorama death metal statunitense per la loro personalissima miscela di death metal e fusion con Focus (1993), dopo la reunion che li ha visti protagonisti nei palchi di tutto il mondo e dopo la pubblicazione di un secondo full length (Traced in Air, 2008) meno di rottura e più in linea con la soluzione del progressive metal intellettuale che loro stessi avevano contribuito a creare e di un EP (Re-Traced, 2010) atto a riproporre alcuni brani di Traced in Air in una versione più intimistica, con questo EP, Carbon-Based Anatomy, arrivano ad un vero e proprio punto di virata col passato.
Infatti questo prodotto dimostra come il gruppo abbia perso ogni interesse  per il metal e abbia invece virato verso un rock arioso, molto melodico ed in diverse situazioni collegabile a band come Muse (specialmente nello stile vocale). I Cynic di Focus, se con Traced in Air erano caduti nell’ombra, con questo Carbon-Based Anatomy, tranne per qualche guizzo ritmico tendente al jazz di Sean Reiner e Sean Malone e per qualche timido riff distorto, sono completamente dissolti. Sono presenti inoltre tre tracce di puro ambient, che forse rendono il lavoro meno appetibile e più pesante per chi era abituato ai Cynic più duri, ma che in ogni caso risultano davvero noiose.
Ciò in ogni caso non vuol dire che il prodotto sia pessimo: brani come la title track, articolati quanto basta, possiedono tutti gli ingredienti affinché questo nuovo stile possa proseguire su una linea, per non dire eccellente, almeno dignitosa. Buon brano anche Box Up My Bones, di gran lunga il più “convenzionale” mai prodotto dal gruppo: un vero e proprio brano rientrante nei canoni della forma canzone, con un chorus catchy al punto giusto. Questi sono i nuovi Cynic e il pubblico ne è chiaramente spezzato: c’è chi apprezza realmente questa svolta intimistica, chi si è convinto che debba essere un capolavoro perché marcato Cynic e gente a cui la cosa non va proprio giù e già bocciano senza pensarci troppo su l’EP. Personalmente mi pongo nel mezzo: il prodotto è buono anche se l’inventiva è calata in modo verticale. Promossi, anche se è col prossimo full length che dimostreranno come sviluppare questo nuovo sound: a conti fatti questo stile può andar bene per un EP, ma allungato ad un intero album può scadere nella noia intellettuale-spirituale di cui abbiamo forti echi nel side project Æon Spoke, con cui molte persone hanno giustamente ravvisato somiglianze parlando dell’EP.

Voto: 6/10

Blaze.


Ulver-Bergtatt

Artista: Ulver

Album: Bergtatt

Genere: Black Metal

Anno di Pubblicazione: 1995

Etichetta: Head Not Found

Erano i primi anni dell’ultimo decennio del ventesimo secolo quando in Norvegia sorge, fra tante, una band; tale band, chiamata Ulver, rilascia nel 1993 il suo primo demo, chiamato Vargnatt. Sebbene si possa riscontrare un sound ancora in qualche modo legato al classico “True Norwegian Black Metal”, con irrazionali scariche in blast beat, riff incomprensibili e cantato in scream (molto immaturo, fra l’altro; sembrava quasi una voce semplicemente sporcata), questo demo mostra anche qualche carta in più rispetto ai cugini più famosi: una vena folk molto accentuata e dei testi che si staccano dalle classiche tematiche satanico-esoteriche, marchio di fabbrica dei colleghi.
È proprio dopo aver lasciato dietro di sé le scorie del peggio della scena coeva che gli Ulver, pubblicati dall’etichetta indipendente Head Not Found, gettano alle stampe il loro primo full length, dal nome “Bergtatt – Et Eeventyr i 5 Capitler” (Rapita dalla Montagna – Una leggenda in cinque capitoli).
In particolare l’album si rivela un concept album narrante una storia: una ragazza, persuasa dalle dolci voci della foresta e della montagna (le quali poi si riveleranno essere demoniache), si addentra sempre più in esse fino ad esserne completamente prigioniera.
La storia, ispirata ad una leggenda norvegese, è semplice ma di grandissimo effetto e la trasposizione su musica è tra le più ispirate del metal di quegli anni: essa infatti poggia pienamente su un riuscitissimo connubio tra black metal (che però appare molto più ragionato e convincente che su Vargnatt) e folk di pura matrice scandinava (ciò che si può facilmente intuire dai numerosi arpeggi nel corso dell’album e dal quarto “Capitel”, interamente acustico). L’album, dimenticato dalla band ma non dai fan, possiede anche nella terza traccia un  ospite facoltoso, vale a dire Steinar Sverd Johnsen, virtuoso tastierista degli Arcturus. In definitiva gli Ulver con la loro prima opera già rilasciarono un grande capolavoro, per poi pubblicare un breve full length di pura matrice folk (Kveldssanger), uno di grezzo black metal (Nattens Madrigal) ed infine, dopo un meraviglioso ibrido (Themes from William Blake’s The Marriage of Heaven and Hell), approdare sulle misconosciute (almeno per il pubblico metal che fino a quel momento li aveva consacrati come idoli) lidi dell’elettronica, sotto le sue più disparate forme (dal trip hop all’ambient).

Voto: 9/10

Blaze.


Black Sabbath-Black Sabbath Vol. 4

Artista: Black Sabbath

Album: Black Sabbath Vol. 4

Genere: Hard Rock/Heavy Metal

Anno di Pubblicazione: 1972

Etichetta: Vertigo

Mi accingo a parlare di questo album dopo il clamoroso annuncio dell’annuncio (scusate il gioco di parole) che verrà fatto il prossimo 11 novembre  (reunion? Era già nell’aria: http://blacksabbath.com/); chiaramente ci si potrebbe chiedere: perché avrei scelto proprio Black Sabbath Vol. 4, quando al blog mancano lavori ben più rilevanti, come Paranoid, Sabbath Bloody Sabbath o l’omonimo debutto? Semplice, il motivo è che ritengo Vol. 4 l’album dei primi cinque più sottovalutato da critica e pubblico (forse anche dagli stessi Sabbath, anche se lì probabilmente Sabbath Bloody Sabbath vince la palma).
L’album conferma le linee stilistiche accennate dal capolavoro Paranoid e accentuate da Master of Reality. I membri della band d’altronde in quegli anni, trasferitisi negli Stati Uniti, iniziavano a godere del nome di “rockstar”  e di tutti i benefici del caso, tra cui alberghi principeschi e tanta droga. Alla cocaina infatti è dedicato il pezzo più famoso dell’album, Snowblind, sebbene il batterista Bill Ward abbia ammesso che in quei mesi il gruppo stesse un po’ perdendo il controllo di sé.
In ogni caso da un lato il gruppo accentua ancora la durezza del riffing, che in Cornucopia probabilmente raggiunge il suo punto di massimo contatto con quel doom metal che si dichiarerà nei decenni a seguire tanto influenzato dalla band di Tony Iommi. Emergono ancora dagli otto minuti di Wheels of Confusion residui di psichedelia che si erano fatti sentire tutti nel primo capolavoro della serie, Planet Caravan, e avevano avuto il loro massimo in un pezzo come Solitude. Emergono anche velleità pop di ispirazione beatlesiana dalla ballata arrangiata tutta a mellotron e pianoforte Changes, scritta interamente da Ozzy Osbourne (pare, in ricordo della sua prima moglie). Immancabile anche il pezzo acustico dopo il piacevole esperimento di Orchid con Laguna Sunrise, che però risulta essere indubbiamente il pezzo più debole del platter, con un arrangiamento di mellotron fuori posto ed insensatamente pomposo; in ogni caso un momento di passaggio, un esperimento che condurrà la band al suo apice acustico, la meravigliosa Fluff contenuta in Sabbath Bloody Sabbath.
Manca una uptempo di qualità quale poteva essere la favolosa Children of the Grave di Master of Reality: il disco difatti preferisce soffermarsi su midtempo proponendo l’accoppiata Supernaut/Starblind.
Credo sia evidente che la descrizione di Volume 4 sia stata in realtà un’occasione per poter porre in luce almeno una parte della sterminata discografia di qualità dei primi Black Sabbath.
Onore ad una band che per 40 anni ha donato prodotti di estrema importanza, seminali per lo sviluppo del metal.

Voto: 7,5/10

Blaze.


Motörhead-Inferno

Artista: Motörhead

Album: Inferno

Genere: Heavy Metal

Anno di Pubblicazione: 2004

Etichetta: SPV GmbH

Il primo decennio del XXI secolo si è visto teatro di molte reunion storiche che hanno portato ad una vera e propria rigenerazione dell’heavy metal (in testa troviamo gli Iron Maiden che si riconciliano col figliol prodigo Bruce Dickinson e i Judas Priest, riappacificatisi con lo storico frontman Rob Halford), e andando avanti con la carriera entrambe le band hanno deciso di sfruttare questa nuova “Golden Age” per approfondire degli argomenti che non avevano ancora provato nel corso della loro carriera (nel 2008 Nostradamus lancia i Judas Priest nel filone del metal sinfonico, oppure nel 2003 gli Iron Maiden iniziano a mostrare venature e velleità progressive che hanno fatto piacere ad alcuni fan e storcere il naso ad altri); ma un gruppo, senza mai sciogliersi né riunirsi, non ha mai cambiato il proprio sound, rimanendo, tanto per usare un termine improprio, “fedeli” alla propria linea sonora e non lasciandosi mai influenzare da alcuna moda esterna: chiaramente sto parlando dei Motörhead, gruppo dell’intramontabile Lemmy Kilmister.
Siamo nel 2004, e i Motörhead tirano fuori dal cilindro un album che costituisce l’ennesima fotocopia dei primi capitoli della discografia, sia pur appesantita; nondimeno, risulta una fotocopia dannatamente attraente. La qualità del riffing è ai suoi massimi livelli, si dà più importanza alla melodia con refrain quasi catchy e in due tracce Steve Vai impreziosisce il tutto con due ottimi assoli.
Il disco si spiega, come praticamente tutte le pubblicazioni Motörhead,  tra up-tempo al fulmicotone (grande esempio ne è la opener “tritaossa” Terminal Show) e Mid-tempo da un buon gusto hard rock (esempio ne è Killers, impreziosita di un chorus da headbang). Grande sorpresa Lemmy regala alla fine del disco con il Whorehouse Blues, un blues (come suggerisce il titolo) suonato completamente alla chitarra acustica (lo stesso Kilmister si concede all’accompagnamento chitarristico appendendo il basso momentaneamente al chiodo) e con un simpatico assolo di armonica a bocca.
In sostanza sì, un’ennesima riproposizione del classico sound Motörhead senza troppi cambiamenti, ma è davvero una delle migliori fotocopie della risma.

Voto: 7,5/10

Blaze.


Lou Reed, John Cale & Nico-Le Bataclan ’72

Artista: Lou Reed, John Cale & Nico

Album: Le Bataclan ’72

Genere: Rock/Avantgarde/Gothic Rock

Anno di Pubblicazione: 2004

Etichetta: Dynamic

Era il 1967 quando uno degli album più sconvolgenti della storia della musica fu gettato in pasto alla stampa: sto chiaramente parlando di The Velvet Underground & Nico, il debutto della band americana The Velvet Underground, rivoluzionario in tutti i sensi e per quasi qualsiasi genere rock a seguire. La band, che aveva i suoi fondatori in Lou Reed e John Cale, contava sul supporto del re della pop art, Andy Warhol, che aveva deciso di assegnare ai propri protetti una sorta di “musa”; per tale scelta cadde a pennello la chanteuse di origini tedesche Christa Paffgen, in arte Nico, che sul lavoro cantò su tre brani (Femme Fatale, All Tomorrow’s Parties e I’ll Be Your Mirror). Dopo il debutto Nico non collaborò più con la band che intanto avrebbe rilasciato almeno un altro grande album fino all’abbandono di John Cale, per poi produrre album non straordinari, ma almeno decenti col solo Lou Reed ed infine scadere nella mediocrità dopo l’abbandono di quest’ultimo.
Intanto i due membri fondatori avevano intanto intrapreso fortunate carriere soliste, e Nico non era stata da meno, rivelandosi come una delle menti più geniali degli anni ’70.
Nel 1972 Cale, Reed e Nico decidono di incontrarsi al famoso Le Bataclan di Parigi per registrare un ultimo spettacolo insieme, e il risultato è questo disco, pubblicato solo nel 2004.
Il concerto propone in una straordinaria versione unplugged i brani migliori del primo storico disco ed anche il meglio delle carriere soliste dei tre artisti. In particolare potrebbe sembrare che brani come I’m Waiting for the Man e (soprattutto) The Black Angel’s Death Song perdano in mordente a causa dell’arrangiamento esclusivamente acustico, ma se ciò è vero, è altrettanto vero che guadagnano e non poco in espressività (in particolare in The Black Angel’s Death Song, dove la viola di Cale, non più nevrotica come su disco, risuona spettrale sulla base degli accordi di Reed). Per quanto riguarda i brani delle carriere soliste dei singoli membri, Reed ci delizia con profonde ballate folk tra le quali spicca la monumentale Berlin; Cale, che per l’occasione sale anche al microfono, canta brani del calibro di Empty Bottles e Ghost Story; indubbiamente però, oltre ai classici dei The Velvet Underground, il momento più alto del live è raggiunto quando la regina gotica, Nico, prende posto al suo harmonium e, aiutata dalla viola di John Cale, delizia il pubblico con tre brani dove emerge tutto il fascino della chanteuse, momento che si sviluppa in una profonda climax culminante nell’estratto di Desertshore, Janitor of Lunacy.
Nonostante almeno un paio di gravi assenze da The Velvet Underground & Nico (Sunday Morning e soprattutto Venus in Furs), il live, prodotto in modo molto rozzo e considerabile alla stregua di un bootleg, regala un’ultima notte in compagnia delle tre menti geniali che, 44 anni fa, cambiarono il corso della musica rock.

Voto: 7,5

Blaze.


Dead Link A Dramatic Turn of Events

Ci siamo resi conto che il link di A Dramatic Turn of Events non funzionava più, quindi è stato sostituito sia nel post sia nella colonna con il seguente:

link soppressi a data da destinarsi
11/04/2012 


Hawkwind-In Seach of Space

Artista: Hawkwind

Album: In Search of Space

Genere: Psychedelic Rock

Anno di Pubblicazione: 1971

Etichetta: United Artists

Il 1971 (e precisamente, il seguente In Search of Space) inaugurerà la stagione d’oro di uno dei gruppi di punta del periodo prog, gli Hawkwind (sebbene in verità gli Hawkwind siano sempre più stati inclini ad un rock psichedelico a fortissime tinte hard rock ricco di jam acide improvvisate più che ad un prog inteso in senso lato). Se il precedente album omonimo aveva lasciato il gruppo, se non nell’ombra, lontano dall’Olimpo, con questo In Search of Space ogni dubbio viene annullato circa le doti tecniche e compositive del gruppo. Nonostante alcune pause più tranquille (quasi rifiatanti) come You Know You’re Only Dreaming oppure la ballata We Took the Wrong Step Years Ago, l’album si sviluppa come un inquietante viaggio nello spazio che non cede a compromessi; non a caso il lavoro si apre con You Shouldn’t Do That, un estenuante tour-de-force della durata di 15 minuti, un’enorme jam che parte da un tema portante per svilupparsi a oltranza. Punta di diamante assoluta dell’album è però l’incredibile Master of this Universe, che propone tra l’altro un riff molto distorto e pesante per l’epoca, collegabile per più di un verso a certi pezzi dei Black Sabbath. Ma una volta partito il riff, sostenuto da una base ritmica veloce e dinamica, i paragoni con i Black Sabbath si spezzano: dopo una profetica strofa cantata da Dave Brock la chitarra e il sax, sempre free e mai melodico, si lanciano in sessioni solistiche acide e totalmente improvvisate, per lanciarsi in quattro minuti di follia, tornando infine sul tema iniziale. Nella versione cd sono presenti tre bonus track di grandissima caratura (specialmente la meravigliosa Seven by Seven, che non avrebbe affatto sfigurato nella tracklist del vinile) che non possono fare altro se non impreziosire ulteriormente questo album già di per sé eccellente. Gli Hawkwind avrebbero prodotto almeno un altro album di grande qualità in studio (Doremi Fasol Latido) e poi racchiuso tutto questo stato di grazia nel monumentale live Space Ritual, che non a caso ad oggi risulta il miglior prodotto mai messo in commercio dalla band, ed è paragonabile a pietre miliari del calibro del Made in Japan dei Deep Purple.

Voto: 9/10

Blaze.

 


Kraftwerk-The Man-Machine (Die Mensch-Maschine)

Artista: Kraftwerk

Album: The Man-Machine (Die Mensch-Maschine)

Genere: Elettronica

Anno di Pubblicazione: 1978

Etichetta: Kling Klang (Germania)/Emi/Capitol

Siamo nel 1978, quando l’esplosione del synthpop, della disco e della new wave più elettronica doveva ancora venire alla luce in modo deciso, un gruppo tedesco già aveva assaporato quanto l’aver “liberato” l’elettronica dalle prigioni dell’élite tedesca e l’averla messa al servizio di musica più orecchiabile e meno impegnata potesse essere efficace.
Nella fattispecie è bene ricordare che fino all’avvento dei Kraftwerk il suono sintetizzato era utilizzato perlopiù dai cosiddetti “pionieri cosmici”, ossia gli esponenti più in vista della Kosmische Music, tra i quali ricordiamo l’intramontabile Klaus Schulze. Se in un primo momento i Kraftwerk presero parte alla mastodontica ondata sperimentale del krautrock, man mano se ne staccarono, producendo un tipo di musica sempre più “popolare” e meno colta.
In particolare l’esplosione avvenne con Autobahn, del 1974, che però se nella title track sfoggiava appunto un prototipo di synthpop (tra l’altro, un pezzo synthpop di più di 20 minuti), nelle altre tracce mostrava ancora qualche titubanza con decise reminiscenze cosmiche.
Il sound fu limato con i successivi Radio-Activity, l’ottimo Trans-Europe Express e raggiunse piena maturità con questo The Man-Machine.
L’album, un gioiellino per chiunque sia amante di certe sonorità, presenta un suono pulito ed elegante dove i synth sono trattati in modo ormai esperto in pezzi che se a volte mostrano di essere ancora abbastanza articolati (come Neon Lights, uno sfavillante tour-de-force della durata di nove minuti), comunque ormai sono lontani dalle pretenziosità sperimentali della Kosmische Music. In particolare il pezzo The Model ottenne enorme successo,ciò che gli valse l’essere coverizzato da moltissime band, tra cui il gruppo industrial metal Rammstein. Anche le tracce vocali filtrate attraverso il fedele vocoder sono alternate in modo esperto a cantati più naturali. Inoltre lo stesso look dei Kraftwerk, mostrati in fila nella cover del disco, li assimila più a delle entità robotiche che a degli esseri umani. Delle entità robotiche che hanno ribaltato il destino dell’elettronica, forse destinata ad essere rinchiusa in una gabbia dorata ancora per molto, molto tempo.

Voto: 8/10

Blaze.


Lost World-Awakening of the Elements

Artista: Lost World

Album: Awakening of the Elements

Genere: Progressive Rock

Anno di Pubblicazione: 2006

Etichetta: CD Musea Records

È innegabile che il progressive rock ai giorni nostri, pur rientrando in un genere di nicchia, gode di una nuova e profusa linfa vitale proveniente da tutto il mondo. Prova di ciò è questa giovane band, i Lost World, provenienti addirittura dalla Russia, che da questo (non molto originale, a dire il vero) concept sugli elementi naturali suonano un prog rock strumentale con alcuni spunti interessante, come il basso funky di Over the Islands. La tecnica dei ragazzi è sopraffina (non a caso, escono da un conservatorio tutti) e in special modo nella suite in tre movimenti States of Mind e soprattutto nella scatenata Schostoccata mostrano anche ottime influenze hard rock.
In conclusione il lavoro appare come un disco, sebbene di maniera e fortemente ispirato al progressive dei cugini inglesi, suonato molto bene e decisamente godibile, privo di grandi intuizioni ma conscio di come riuscire a non annoiare il medio ascoltatore del progressive rock per 40 minuti di fila. Un disco molto buono.

Voto: 6,5/10

Blaze.


Höstsonaten-Winterthrough

Artista: Höstsonaten

Album: Winterthrough

Genere: Progressive Rock

Anno di Pubblicazione: 2008

Etichetta: CD AMS/VM2000

Nonostante ormai, anno domini 2011, il progressive rock non sia più sulla cresta dell’onda, dopo il suo periodo d’oro nella prima metà degli anni ’70 e dopo il suo revival nei primi anni ’80, esso è comunque rimasto un genere di nicchia tuttora seguito da migliaia di appassionati nel mondo. All’acme del fenomeno progressivo anche l’Italia era stata pervasa da questo genere ed anzi, il nostro paese offriva una delle scene più corpose e ricche di gruppi di qualità, sebbene spesso modellata in modo evidente su quella inglese, possibilmente ancora più rigogliosa. Tutt’oggi, sempre in relazione ad un pubblico di nicchia, il prog italiano offre una scena abbastanza ricca, e uno dei personaggi più emblematici in questo senso è indubbiamente il chitarrista Fabio Zuffanti che, nonostante le lamentele per non riuscire ad imporsi in un panorama mainstream (scrisse a suo tempo addirittura una lettera colma di indignazione a riguardo), è sufficiente noto nel piccolo ambito degli aficionados del rock progressivo, sia in Italia ma soprattutto all’estero. Il suo progetto più noto, nel vasto reticolato di collaborazioni cui prende parte il musicista, è indubbiamente quello degli Höstsonaten e del loro “Seasoncycle”, ossia un ciclo di quattro album dedicato alle stagioni; idea insomma non troppo originale (ci aveva già pensato un certo Vivaldi qualche secolo fa) ma in ogni caso sempre fruttifera. In particolare Winterthrough, album uscito nel 2008 e dedicato all’inverno e a tutte le sue sfaccettature, risulta uno degli album più riusciti del ciclo.
Si tratta prevalentemente di un progressive rock strumentale dalle tinte intimistiche (atte con successo a ricreare le atmosfere gelide della fredda stagione) e dallo stile semplice ma fresco e mai eccessivamente pomposo. Con la partecipazione di ben due tastieristi (Alessandro Corvaglia, assegnato al mellotron e al moog, e Roberto Vigo all’organo, al Grand Piano e ad altre tastiere) e di un fiatista, Edmondo Romano, Winterthrough riesce effettivamente a dipingere un freddo paesaggio invernale, dalla prima nota della lunga ouverture  Entering the Halls of Winter all’ultima della maestosa Rainsuite. In ogni caso il lavoro pecca di un eccessivo rigore e di un’esagerata freddezza (nonostante il tema trattato in qualche modo in certi passaggi la imponesse): il disco risulta in qualche modo di maniera e poco spontaneo ed è difficile arrivare alla fine senza sentire dentro di sé un senso di artificioso e di costruito, la qual cosa rappresenta il difetto fondamentale del disco e gli impedisce di essere un ottimo lavoro, sebbene ne abbia le credenziali.

Voto: 7/10

Blaze.


Pan.Thy.Monium

Se si dovesse citare un caso di gruppo che da semplice divertissement si è trasformato in uno dei progetti più interessanti di un intero genere, probabilmente tirare in ballo il nome dei Pan.Thy.Monium non sarebbe errato.

La nascita del progetto, all’apparenza uno dei tant(issim)i del talentuoso leader degli Edge of Sanity, Dan Swanö, è quanto mai curiosa: nel 1990 Swanö e Robert Ivarsson, chitarrista ritmico, per semplice svago decidono di improvvisare dei riff in sala di registrazione (all’epoca gli Edge of Sanity avevano ancora l’accordatura standard in Mi), da un lato per sperimentare accordature più basse, dall’altro perché Swanö intendeva riempire qualche pezzo con interventi tastieristici, cosa che nella sua band madre ancora non aveva preso piede (basti pensare che gli Edge of Sanity erano praticamente appena nati). Benny Larsson, futuro batterista anche degli Edge of Sanity, poco più tardi, frequentando la stessa sala prove entra a far parte del progetto (dice Swanö stesso che all’epoca, non potendo legalmente né bere né ubriacarsi, moltissimi ragazzi sfogavano le loro frustrazioni noleggiando la sala prove dove lui stesso aveva formato i Pan.Thy.Monium, e lì ha conosciuto moltissima gente). Allora Swanö, Ivarsson e Larsson fanno uno strano incontro: Robert Karlsson, un vocalist, si aggirava spesso per lo studio apparentemente privo di band sebbene lui asserisse con convinzione il contrario (persino Swanö avrebbe in seguito detto di non credere effettivamente che Karlsson avesse un gruppo). Noncuranti di questo, gli altri ragazzi propongono a Karlsson di entrare nel gruppo, ottenendo una risposta positiva.
Secondo Swanö i Pan.Thy.Monium, una volta completi, rappresentavano una sorta di “anti-Edge of Sanity”: accordatura bassissima alle chitarre (a confronto dell’accordatura standard della band madre), riff lenti, al limite del doom metal (tanto che Swanö ha definito più di una volta lo stile dei Pan.Thy.Monium una sorta di “avantgarde doom metal”), struttura dei pezzi totalmente libera e tastiere in gran quantità (all’epoca non in programma negli Edge of Sanity).

In questa formazione (Karlsson alla voce, Swanö alle tastiere e al basso, Ivarsson alla chitarra e Larsson alle pelli) nasce la prima demo della band, …Dawn (1990), di quattro tracce (Swanö riterrà questa demo un grande debutto ed affermerà che contiene diversi loro grandi pezzi). Sebbene la qualità audio, di livello infimo, non permetta una fruizione adeguata del prodotto, è abbastanza evidente che il metal dei Pan.Thy.Monium, benché ancora lontana dai lidi raggiunti in seguito, non è assolutamente comune: riff quasi indecifrabili per via della bassa accordatura, pezzi dagli schemi inesistenti, improvvise scariche quasi “black metal” e stile vocale completamente malato. Karlsson, per quanto oggettivamente poco dotato, si rivela un vocalist perfetto per il progetto: privo di testi (growl fatto interamente in scat singing), altalenante in modo perfetto tra gutturalissimo growl e una sorta di grezzo scream. Probabilmente la traccia più interessante (anche a detta di Swanö stesso) è la opener, Dawn, un minuto e mezzo di divagazioni tastieristiche di Dan Swanö, nel complesso di grandissimo effetto. Il resto dei pezzi oscilla senza mai fermarsi tra death metal, doom metal, black metal (sebbene in piccole dosi), il tutto condito da una particolare dose melodica impartita dalle tastiere di Swanö, onnipresenti.

Grazie a …Dawn i Pan.Thy.Monium riscuotono un discreto successo nell’ambiente underground, che li apprezza molto. Per questo motivo l’anno successivo, con una lineup pressoché invariata, pubblicano un EP (prodotto decisamente meglio), Dream II (1991), dove le idee e le intenzioni del gruppo si concretizzano in modo sempre più chiaro. Gli inserti di tastiere si fanno più corposi ed invadenti (Swanö dichiarerà che in quell’occasione utilizzarono un registratore ad 8 tracce e quindi poté infarcire l’EP di molte più tastiere). Dawn, della precedente demo, viene reincisa col titolo di Vvoiiccheeces.  A detta di Swanö questo EP è il miglior prodotto discografico dei Pan.Thy.Monium. Le ambizioni a livello compositivo del gruppo diventano via via maggiori: per conferire maggior tessuto melodico alla loro musica decidono di reclutare Dag Swanö, fratello di Dan, alla chitarra solista e al sax, ed il batterista Benny Larsson si concede anche al violino.

Forti di questo arricchimento di formazione, i Pan.Thy.Monium si chiudono in studio per incidere il loro primo album, Dawn of Dreams (Black Mark, 1992). Le sette tracce contenute nel lavoro, tutte prive di titolo, non fanno altro che amplificare e portare su larga scala le intuizioni della band: il primo brano, un gigantesco monumento di oltre ventuno minuti, una sorta di suite destrutturata dove i Pan.Thy.Monium, esibendo riff più contenuti e meno decadenti (anzi, inizia spesso ad avvertirsi un retrogusto hard rock) ed un gusto per la melodia più raffinato (anche grazie al nuovo arrivo Dag Swanö con dosati interventi di sax e con i suoi assoli di chitarra, spesso più rock che metal), si dilunga senza eccessivi cali. Karlsson, che ha assunto lo pseudonimo di Derelict, ancora continua a growlare senza alcun testo prestabilito, tolta una parte interamente sussurrata. Le altre tracce, più corte e regolari (per quanto di regolarità si possa parlare), non fanno altro che confermare ciò che la prima aveva già abbondantemente comunicato. L’album, di fatto, è una pietra miliare per il metal d’avanguardia, sebbene sia nato semplicemente come divertissement. I membri del gruppo, completamente sfiniti dalla regolarità delle loro band di provenienza, sfogano la propria voglia di sperimentare in un album criptico, polimorfico e misterioso. La sibillina parola con cui si chiude l’album, sussurrata da Derelict (Caos) sarà un filo conduttore di tutta la discografia del gruppo, improntata proprio al caos più totale.

Purtroppo il successivo Khaooohs (Black Mark, 1993) nasce in un humus decisamente meno fertile: i membri del gruppo hanno ben altre priorità e sono spinti semplicemente da esigenze discografiche. A detta di Swanö, la band ha “cercato di rimpiazzare il riffing genuino con un’infinità di assurdi overdubs”. In effetti il lavoro risulta tra i tre album pubblicati il meno ispirato della band, con pezzi brevi, poco incisivi, spesso costruiti intorno al nulla e privi addirittura di un riff portante. Tra i vari brani l’unico effettivamente da segnalare è Lava, che poggia su cambi di tempo gradevoli e su una chiusura decisamente hard rock. È comunque un capitolo della storia dei Pan.Thy.Monium da dimenticare e nato in un momento difficile.

Nel frattempo i membri si dedicano ai propri progetti originari (la discografia degli Edge of Sanity infatti pubblica circa un lavoro all’anno), dimenticando o quasi il progetto Pan.Thy.Monium, che però comunque avrebbero dovuto riprendere in mano per un ultimo full length, il futuro Khaooohs and Kon-Fus-Ion (Black Mark, 1996). A detta di Swanö, l’album viene registrato in modo molto frettoloso e dato alle stampe appena raggiunto un minutaggio adeguato (ed adeguato è esagerato, visto che l’album dura poco più di mezz’ora), sebbene, sempre secondo lo stesso, il riffing sia più ragionato e originale rispetto al precedente Khaooohs. Effettivamente le parole di Swanö su Khaooohs and Kon-Fus-Ion sono forse più da legare al suo stato d’animo all’uscita più che al disco stesso: il prodotto, infatti, è di gran lunga quello di qualità più elevata mai pubblicato dal combo svedese (in ogni caso bisogna pensare anche che in quegli anni gli Edge of Sanity, da cui Swanö e Larsson provenivano, avevano forse raggiunto l’apice della loro creatività, pubblicando il capolavoro Crimson) . Il bilanciamento tra melodia e decadenza è quanto mai al picco dell’equilibrio; i pezzi, pur seguendo sempre schemi del tutto liberi e slegati, ora possiedono una loro ossatura e non sembrano riff accatastati a casaccio, impressione che Dawn of Dreams e (soprattutto) Khaooohs a volte potevano dare; gli inserti di tastiera sanno ben destreggiarsi tra arie sinfoniche e sessioni più dinamiche; Dag Swanö dà il meglio di sé negli assoli di chitarra (sempre più rock-flavoured) ma soprattutto al sax, ora non più dolce e melodico come in Dawn of Dreams, ma schizofrenico, acido e cacofonico. L’album si compone di tre composizioni, due lunghi pezzi metal nel più puro stile free di cui ormai i Pan.Thy.Monium sono maestri e da Behrial, una traccia ambient inserita a puro titolo di riempitivo, sebbene risulti comunque piacevole e non noiosa. È presente in verità anche una traccia finale della durata di un minuto, posta da Raagoonshinnaah, il produttore della band. Un minuto di puro silenzio, chiamato In Remembrance. Ma in ricordo di cosa? Forse di un moniker poco considerato anche dai suoi stessi membri e che avrebbe meritato un ricordo maggiore?

Blaze.


Dream Theater-A Dramatic Turn of Events

Artista: Dream Theater

Album: A Dramatic Turn of Events

Genere: Progressive Metal

Anno di Pubblicazione: 2011

Etichetta: Roadrunner Records

Dopo una soup televisiva degna del miglior sceneggiato sudamericano, che ha visto i rapporti tra i Dream Theater e l’uscente batterista Mike Portnoy logorarsi fino all’irreparabile (anche se l’odore danaroso della reunion è sempre in agguato), e dopo l’assoldo di uno dei mercenari più quotati tra i batteristi, Mike Mangini, i Dream Theater, a loro detta “rifiatati” e “liberi” (parole in particolar modo riferite al chitarrista John Petrucci), fanno uscire il loro undicesimo album, che mai titolo più azzeccato avrebbe potuto avere, A Dramatic Turn of Events. Decisamente pochi avevano la speranza che questo album potesse essere anche solo pari alla precedente uscita Black Clouds and Silver Linings, già non accolto troppo bene dalla critica. Il quintetto, invece, riesce insperatamente a tirare fuori dal cilindro una prestazione ottima, ben bilanciata, priva di sbavature e senza esagerazioni di sorta. Il fatto che il nuovo batterista non abbia potuto incidere dietro le pelli è senza dubbio dovuto al fatto che non abbia potuto mettere mano sulla stesura dei pezzi, e dunque è stato costretto a replicare ciò che Petrucci aveva composto su drum machine. La distribuzione del minutaggio, forse mai così intuitiva ed intelligente (tutto il lavoro poggia sull’alternanza di tracce composite di circa dieci minuti e placide ballate della durata di massimo cinque o sei minuti), rende l’ascolto molto tranquillo e l’oretta abbondante di durata del disco non risulta pesante alle orecchie dell’ascoltatore. Ma dunque i Dream Theater si sono effettivamente “rifiatati”? È sufficiente dare un ascolto al singolo di lancio, la opener On the Back of Angels, per capire che a livello compositivo la band è presente. Bridge e refrain ben impiantati (con un Labrie forse troppo poco incisivo, costante purtroppo di tutto l’album) su riff mai troppo esagerati. Addirittura la presenza di Jordan Rudess non risulta invadente, ed anzi il tastierista anche quando si abbandona ai suoi interventi, anche virtuosistici, non dà mai effettivamente un senso di “di troppo” ed anzi appare sempre molto ispirato. Anche le commistioni con il metalcore e con il nu metal (introdotte proprio da Portnoy con quella famosa The Glass Prison nel 2002) sono finalmente complete e mature e questo appare evidente nella seconda traccia Build Me Up, Break Me Down, dove ritornelli melodici e parti più graffianti si alternano senza particolari sbavature. Capolavoro dell’album comunque è indubbiamente la traccia più lunga del lotto, Breaking All Illusions, dove dopo un’intro a base di riff power metal ritrattati in improponibili tempi dispari e tastiere onnipresenti, i cinque si dilungano con fraseggi perfetti in un pezzo che senza troppi problemi può essere ricondotto ai grandi capolavori della band. Insomma, se non destinato a diventare un classico, A Dramatic Turn of Events segna una svolta: che sia la ripresa stilistica di una band che dal 2002 ha andamento incerto?

Voto: 7/10

Blaze.


Spring-Spring

Artista: Spring

Album: Spring

Genere: Progressive Rock

Anno di Pubblicazione: 1971

Etichetta: Neon

Siamo nel 1971, uno dei primi anni d’oro per il progressive britannico e non. Miriadi di gruppi meteora appaiono sulla scena per poi tornare nell’oblio, spesso dopo un unico album, ed ancora più spesso dopo un unico ottimo album. È essenzialmente un’affermazione mirata, in quanto è proprio questo il caso riguardante gli Spring, gruppo formato da musicisti pressoché sconosciuti autori di un ottimo album, che pone al centro di tutto il sovrarrangiamento e le atmosfere ariose, dettate da un tappeto soffice come può essere quello costituito da ben tre mellotron, suonati rispettivamente dal vocalist Pat Moran, dal chitarrista Ray Martinez e dal tastierista Kips Brown, fautore tra l’altro di una performance eccellente, con sessioni soliste di sintetizzatori mai troppo pompose e dal retrogusto sempre epico (l’acme in questo senso è probabilmente dato dal magnifico assolo finale della opener, The Prisoner).
In toto si tratta di un disco dal retrogusto sempre vagamente pop, che si destreggia tra canzoni pop iperarrangiate dall’ottimo gusto romantico (come la già citata opener The Prisoner, o la finale Gazing), brani dal sapore più rock e dai ritmi quasi marziali (exemplum in merito è indubbiamente uno degli highlights del lavoro, ossia Shipwrecked Soldiers) ed infine, due placide ballate, la quasi insipida ma tutto sommato accettabile Boats ed un altro pezzo forte dell’album, ossia Song to Absent Friends. In toto si tratta di un disco da riscoprire, interessante anche se adombrato dalle molte uscite in fondo di molto superiori che correvano in quegli anni (mi verrebbe da citare, tra le tante, Pawn Hearts dei Van der Graaf Generator).

Voto: 7,5/10

Blaze.


Jethro Tull-A

Artista: Jethro Tull

Album: A

Genere: Synthpop/Rock Elettronico

Anno di Pubblicazione: 1980

Etichetta: Islands/Chrysalis Records

Premessa: L’album di cui mi accingo a parlare è probabilmente l’album a cui pensavo quando ho preso la decisione, con Paul e Philo, di fondare questo blog. Quindi perdonate la possibile lunghezza del consiglio e/o vari ed eventuali slanci romantici, perché questo è sicuramente uno degli album più sottovalutati di sempre e sento come mio dovere quello di riportare in auge una delle uscite più particolari di un gruppo che ha provato a darsi una svecchiata, riuscendoci in modo ottimale con un lavoro eccellente, uno un po’ calante ma comunque ottimo, ed uno mediocre (e vabbè, capita) ma che è stato tacciato di “essersi venduto”, fino a tornare sui propri passi. Ecco, già la premessa è venuta enorme.

Sicuramente nel corso dei primi dodici anni di carriera i Jethro Tull hanno subito diverse evoluzioni nel loro sound: si è passati infatti rapidamente dal blues rock di This Was (1968, l’album di debutto), fortemente anche influenzato dal chitarrista di impostazione blues Mick Abrahams, ad uno stile più affine al nascente progressive rock di quegli anni ma sempre mantenendo il proprio personale gusto folkeggiante (culmine raggiunto probabilmente nel dittico Thick As a Brick/A Passion Play, dischi che poggiavano entrambi su due suite, una per facciata, di circa 20 minuti l’una) per poi tornare su sonorità più folk che mai con la trilogia Songs from the Wood/Heavy Horses/Stormwatch. Eravamo ormai nel 1980, era ormai florida l’epoca della new wave e del synthpop, synthpop che avrebbe fatto la fortuna di gruppi come Depeche Mode ed Eurythmics, che seppero ben sfruttare tramite le nuove tecnologie le loro (non molte, a dire il vero) idee.
È proprio su queste sonorità che il neonato A di casa Jethro Tull poggia, ed è ciò che forse più di tutto sconvolse i fan. È necessario comunque dire che Ian Anderson, leader della band, inizialmente intendeva pubblicare A come suo debutto solista (basti pensare al titolo, A viene da Anderson), anche se poi fu dato alle stampe come un prodotto della band madre. È naturale comprendere lo scetticismo del fan medio dei Jethro Tull che, sentendosi circonfuso da un sound così freddo, elettronico, insomma, lontano in tutto e per tutto da ciò che il gruppo britannico era sempre stato. Tuttavia, ed è a questo punto che il fan medio dei Jethro Tull non è saputo arrivare, una volta superato lo “shock” iniziale, il livello globale di questo A è eccellente. Tutte tracce suonate eccellentemente da un Eddie Jobson (proveniente dagli UK) che riesce a riarrangiare i brani, scritti interamente da Anderson, in modo modernissimo ed anche più fantasioso di qualsiasi Depeche Mode: basti pensare, ad esempio, ad una traccia come Batteries Not Included; l’ascoltatore è completamente assalito da un’orda di synth incalzanti e squillanti. Oppure alla opener Crossfire, forse la più “pop” delle tracce, che dopo un breve intro di tastiere del tutto avulsa dal resto del brano, sfocia in una semplice canzone pop arrangiata elettronicamente dal bridge e ritornello incalzanti. Peccato che sia un brano che da solo riesca a tener testa a molti brani del periodo d’oro dei Tull, nonostante la sua semplicità, per via delle sue linee vocali efficaci ma semplici e delle sue (brevi) sessioni soliste ben piazzate. Insieme a Crossfire probabilmente la stella dell’album è quella che forse più si avvicina all’antico concetto tulliano di “progressivo”: sto chiaramente parlando di Black Sunday, il brano più elaborato dell’album, che poggia su un’intro lenta e maestosa che punta su incroci lenti e potenti tra le onnipresenti tastiere di Jobson, la chitarra di Martin Barre (sempre presente ed efficace con i suoi interventi) ed il flauto di Anderson per poi sfociare in un brano dagli arrangiamenti molto più rockeggianti rispetto al resto del brano, sebbene infarciti della prestazione di un Jobson impeccabile, mai di troppo ed al limite del virtuoso ma mai del cattivo gusto. Jobson che poi ci delizia anche con la sua abilità al violino elettrico in un brano particolare come Uniform, che parla di una società ormai ridotta a stereotipi e modelli da imitare. Riguardo al flauto di Anderson, da sempre marchio di fabbrica del gruppo, c’è da dire che è presente in percentuale davvero minore rispetto al resto degli album dei Jethro Tull e che spesso compie anche funzione di accompagnamento, ma ciononostante si riesce ad inserire in momenti precisi: l’album “suona” Jethro Tull al 100%, sono solo modernizzati. Altro discorso a parte lo merita Protect and Survive, presente in due versioni: quella classica, semplice brano cantato (d’effetto, ma decisamente non tra i migliori) ed una, in occasione della ristampa del 2004, totalmente strumentale, che consiglio a tutti di cercare. Chitarra acustica ed elettrica si fondono per un brano in gusto totalmente elettro-folk.  In conclusione, siamo di fronte ad una perla dimenticata della discografia del gruppo inglese, superiore ad uscite ben più blasonate come Crest of a Knave del 1987 (che, oltre al capolavoro Budapest, non è che si tenga su livelli poi così elevati) e rinnegata addirittura da Anderson stesso (tranne Black Sunday, unica traccia che persiste ancora talvolta nelle scalette live della band). Calino i cappelli di fronte ad un gruppo che, dopo 12 anni di successi, ha avuto il coraggio di cambiare, ma poi è stato costretto  a fare marcia indietro.

Voto: 8/10

Blaze.


Funkadelic-One Nation Under a Groove

Artista: Funkadelic

Album: One Nation Under a Groove

Genere: Funk

Anno di Pubblicazione: 1978

Etichetta: Warner Bros.

Siamo nel 1978, anno in cui ormai un genere come il funk ha avuto modo di svilupparsi appieno ed anche, da un lato di contaminare altri generi, dall’altro di lasciarsi contaminare dagli stessi. Questo lucente album dei Funkadelic è proprio la riprova della frase scritta sopra: groove di tipica matrice funk (lo slap ormai è cliché) si fondono man mano ad assolo di chitarra molto aggressivi di chiara origine rock (come nella divertente Who Says a Funk Band Can’t Play Rock?!, dove la chitarra prende il volo in spericolate e velocissime sessioni soliste). Altro grande esempio di ciò è Lunchmeatophobia (Think…! It Ain’t Illegal Yet!) dove il riff portante è puramente hard rock.
In ogni caso, come spesso accade nel funk, è totalmente il basso a farla da padrone. Tutti i brani sono infatti dipinti da groove variabili, ossessivi, veloci e squillanti (probabilmente capolavoro in questo è la seconda Groovallegiance) in pura tradizione funk, nonostante le varie contaminazioni.
A fondo album è presente una versione live del capolavoro della band Maggot Brain (edito in studio nell’omonimo album nel 1971); nonostante alla chitarra non sia presente il chitarrista originale, le peripezie di palese ispirazione hendrixiana che guidano tutti i quasi nove minuti del brano fanno sì che, anche in questa versione alternativa, Maggot Brain resti un caposaldo della discografia del gruppo e del genere tutto e non fa altro che impreziosire ulteriormente un album maturo e completo come già era questo One Nation Under a Groove.

Voto: 8/10

Blaze.


Rockstadium.com: Facebook

Da oggi Rockstadium.com ha la sua pagina Facebook personale! Questa è la pagina, se volete, aggiungete il vostro Mi Piace e seguite la pagina, perché posteremo tanti pezzi che non inseriremo necessariamente nel blog!

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Norrin Radd-Anomaly

Artista: Norrin Radd

Album: Anomaly

Genere: Death Metal/Avantgarde Metal

Anno di Pubblicazione: 2010

Etichetta: Autoprodotto

Come già detto nell’articolo dedicato, al giorno d’oggi purtroppo anche l’avantgarde metal si è chiuso nei suoi cliché e dunque è pressoché impossibile oggi non sapere neanche vagamente cosa aspettarsi da un album di questo genere. Tuttavia, esistono anche personaggi che, un po’ per una smania di tributare, un po’ per la voglia di scoprire nuovi orizzonti, non smettono mai di cercare soluzioni bizzarre o quasi disperate. Un po’ entrambi i casi coinvolgono il canadese Norrin Radd: questo ragazzo infatti, spinto dall’amore per i videogiochi nintendo e per le loro colonne sonore, decide di utilizzare un solo strumento, che è, appunto, un generatore di suoni 8-bit in tutto e per tutto identico a quello del Super Nintendo Entertainment System (SNES per gli amici) per produrre un album death metal con tanto di growl, riff velocissimi e doppia cassa!
In effetti suona davvero curioso sentire dei riff graffianti death metal in 8-bit e addirittura delle sferzate violente in doppia cassa con la drum machine, rigorosamente anche lei in mono. In verità, però, prima ancora che di composizione, questo Anomaly risulta essere un lavoro di “codifica”. In effetti lo SNES utilizza un tipo di estensione audio molto più arretrata degli odierni wav o mp3 e quindi sarebbe stato difficile (o comunque sarebbe suonato molto male) incidere delle tracce vocali in wav su tracce strumentali così obsolete. Dunque è stato necessario prima di tutto convertire le tracce vocali nel formato più adatto allo SNES, per poi unirle alle rispettive tracce strumentali. Molte tracce del disco sono strumentali e servono a mettere in risalto tutte le potenzialità dello strumento. In fondo si tratta di un album death metal suonato con strumenti tutt’altro che death metal. Il download del disco è gratuito.

Voto: 6/10

Blaze.


UK-UK

Artista: UK

Album: UK

Genere: Progressive Rock

Anno di Pubblicazione: 1978

Etichetta: E. G. Records

Siamo nel 1978: ormai dilaga il punk e ben pochi sono i gruppi che ancora cercano di dire la propria nell’ambito del progressive rock, genere in fondo morto piegato su sé stesso (almeno nella sua prima ondata), schiacciato da un’autoindulgenza e da un barocchismo spesso eccessivi. Nel 1983 però, come tutti sanno, i Marillion tenteranno un approccio leggermente differente al genere, traendo ispirazione di fatto dal sound del prog anni ’70 (Genesis in particolare), però con un approccio che strizza l’occhio all’AOR pomposo di Journey e Foreigner tipico di quegli anni dando di fatto il la all’era neoprogressive.
Tra la prima e la seconda ondata, in ogni caso (quindi tra il 1976 ed il 1983), alcuni gruppi di rock progressivo effettivamente sorsero. Questi gruppi possono essere grossomodo raccolti in due ulteriori categorie: quelli che, non avendo potuto incidere il proprio materiale negli anni d’oro del prog, sono riusciti a farlo solo qualche anno dopo (questo è il caso dei nostrani Locanda delle Fate, dei quali l’album Forse le Lucciole Non Si Amano Più ha un suono molto vicino agli altri lavori dei primi anni ’70, pur essendo uscito nel 1978) ed invece quelli che sono già volti alle nuove sonorità, pur non incarnandole ancora alla perfezione; questo è il caso, ad esempio, del supergruppo Asia (forse quelli che meglio coglieranno il concetto di neoprogressive insieme ai Marillion) e questi UK, altro supergruppo che comunque appare molto più interessante della stessa scena neoprog, concedendosi ai suoi stilemi solo in alcuni e mirati punti.
Il supergruppo, formato da Bill Bruford (Yes, King Crimson) alle pelli, John Wetton (Roxy Music, King Crimson, Uriah Heep) al basso e alla voce, Allan Holdsworth (Tempest, Soft Machine, Gong, The New Tony Williams Lifetime) alla chitarra (tra l’altro, ritenuto da Frank Zappa “uno dei ragazzi alla chitarra più interessanti del pianeta”) ed, ultimo ma non ultimo, Eddie Jobson (Roxy Music, Curved Air, Frank Zappa) alle tastiere e al violino elettrico (Jobson sarà anche due anni dopo l’eclettico tastierista sul funambolico A dei Jethro Tull), poggia in bilico tra progressive rock, jazz fusion e rare concessioni a parti più catchy e corali.
Di fatto avrebbe ricordato il sound di Asia e Marillion (tra l’altro, Wetton è anche uno dei co-fondatori degli Asia) soltanto per il suono delle tastiere, ormai puramente sintetizzate e ben lontane da Hammond e Moog dei primi 1970 e per qualche coro tipicamente AOR (come nella opener In the Dead of Night, tra l’altro primo movimento di una suite omonima). Il sound della band comunque si articola in modo molto personale e particolare (al contrario della maggioranza delle band neoprogressive) con più di una strizzata d’occhio al jazz (esempio di enorme qualità è lo scambio di battute tra Holdsworth e Jobson in Thirty Years). In sostanza, sebbene manchi quel quid che possa rendere questo UK un capolavoro del genere va detto che il supergruppo è riuscito a produrre un lavoro molto personale, suonato eccellentemente e percursore di una scena rock che, se davvero ad album simili si fosse ispirata, sarebbe stata certamente più florida.

Voto: 7,5/10

Blaze.


Kalmah-They Will Return

Artista: Kalmah

Album: They Will Return

Genere: Melodic Death Metal/Power Metal

Anno di Pubblicazione: 2002

Etichetta: Spinefarm Records

Nell’ultimo decennio praticamente qualsiasi band metal finlandese che si rispetti non può non aver preso spunto da due ensemble famosi (ma non troppo capaci) degli anni ’90: si tratta del gruppo power metal Sonata Arctica, tra i più pomposi e meno originali del genere (e parliamo di un genere dove la mancanza di originalità è cliché) e dei Children of Bodom, fautori di un death metal molto melodico che si pone l’obiettivo di coniugare riff di matrice maideniana o tipicamente power con il metal estremo di derivazione scandinava, idea effettivamente più interessante sulla carta che su disco. Questi Kalmah non fanno certo eccezione, ed infatti questo They Will Return si muove proprio sulle coordinate lanciate dai Children of Bodom: ampie sezioni virtuosistiche di tastiere e di chitarra, riff ampollosi di natura prettamente maideniana e voce sporca (non tanto capace, a dire il vero) in puro stile death metal.  Il tutto però con una differenza, rispetto ai cugini maggiori: i riff sono di qualità maggiore ed anche gusto e perizia tecnica sono su livelli superiori. Le sezioni di tastiera (limitate, bisogna dire) sono meno pompose di quanto potrebbero ed i numerosi assolo di chitarra sparsi un po’ ovunque, ben oltre l’autoindulgenza, sanno comunque farsi apprezzare dagli appassionati del genere. Il lavoro si chiude con una cover, Skin o’ My Teeth dei Megadeth, un filler abbastanza inutile per un album che ha esaurito i suoi argomenti a metà e che va avanti per l’altra metà per inerzia, pur facendolo bene e senza ripetersi in modo scandaloso. Un disco che si lascia ascoltare, in definitiva, un silenzioso ma buon tassello di una scena che finora ha già detto troppo e che sarebbe meglio non dicesse più nulla. Però finché regala album ascoltabili come questo, non c’è problema.

Voto: 6/10

Blaze.


Modifica staff

Dopo circa quattro mesi di inattività sul blog per ragioni più o meno personali (il tutto misto alla perdita della password dell’account), Philo (i cui consigli potrete trovare tra i primi post del blog) ha deciso di rinunciare al suo incarico di amministratore.
Non dimentichiamo comunque che Philo è collaboratore di RockLine.it, sito di critica musicale a livello nazionale, nelle vesti di recensore.
Ricordiamo a Philo che comunque qualora volesse scrivere qualcosa saltuariamente può benissimo impegnarsi come collaboratore occasionale.


Frank Zappa-Francesco Zappa

Artista: Frank Zappa

Album: Francesco Zappa

Genere: Musica da camera/Elettronica

Anno di Pubblicazione: 1984

Etichetta: Barking Pumpkin Records

Esistono dischi destinati a far tremare la terra, a scuotere l’immaginario collettivo, a scavarsi un posto di primo piano nella storia della musica. Esistono dischi invece banali e stantii che sanno farsi ricordare solo per la loro pessima qualità. Ed esistono, infine, album che passano del tutto inosservati,  con contenuti leggeri ma di buona qualità e privi di qualsiasi connotato storico fondamentale e non. Questo è il caso del seguente Francesco Zappa. Pare che l’eclettico musicista americano Frank Zappa, dopo essere venuto a conoscenza dell’esistenza di un suo quasi omonimo compositore milanese, un violoncellista barocco scrittore di alcune opere nel 1700, abbia deciso, in assenza di registrazioni di questo musicista, di registrare due delle due opere, l’Opus I e l’Opus IV utilizzando il synclavier, tastiera elettronica molto potente allora in voga (basti pensare che il celebre Thriller, l’album più venduto del mondo, del defunto Michael Jackson, ne aveva ampie partiture), tastiera che Zappa poi avrebbe usato nel 1986 per comporre anche il suo Jazz from Hell, uno dei suoi album più celebri.
La durata dell’album, poco meno di quaranta minuti, scorre via in tutto relax, con le partiture del milanese perfettamente trasposte su tastiera elettronica, che in questo caso sembra adempiere perfettamente al ruolo predisposto da Zappa. Sebbene dunque il disco non sia particolarmente brillante, in ogni caso, in primo luogo, dà la possibilità a Zappa di esercitarsi al synclavier (che avrebbe in seguito utilizzato per dischi ben migliori); in secondo luogo, regala quaranta minuti di musica rilassante di un compositore semisconosciuto dell’epoca barocca.

Voto: 6,5/10

Blaze.


Storia dell’Avantgarde Metal

Sicuramente una delle scene più floride tra gli anni ’90 ed i giorni nostri è stata quella dell’avantgarde metal. Corrente più volte vituperata, insultata e spesso neanche accettata nel panorama metal, in diversi casi ha invece saputo mostrare unghie e denti, mostrando tinte jazz, progressive, funk o anche industrial, spesso creando una commistione sonora veramente interessante, superiore anche al panorama coevo progressive metal. Alcune band, come vedremo nel corso del post, si sono successivamente convertite in un progressive metal forse un po’ più stanco, ma non pessimo. Ma fondamentalmente appare naturale domandarsi: cosa caratterizza questo genere, che è stato così tanto osteggiato? È fondamentale dire per iniziare che le band avantgarde metal, al contrario di generi ben delineati come hard rock, heavy metal, progressive metal o thrash metal, non possiede effettive coordinate stilistiche precise. La parola “avantgarde metal” inizialmente descriveva più un’attitudine ad inserire particolari influenze nei propri lavori (dalla musica classica al jazz) oppure una particolare strumentazione (sax, violini, violoncelli) che un genere vero e proprio con dei particolari connotati di stile. Tuttavia, dopo una lunga lotta contro la discriminazione della critica, è diventato impossibile evitare di descrivere certi gruppi senza ricorrere ad una scena a sé stante. Iniziamo dunque questo viaggio all’interno di uno dei generi più discussi all’interno del panorama metal e che ha saputo talora elevarlo ad arte più di quanto già non fosse stato fatto, talora invece ridicolizzarlo in toto:

Le origini.

Si è abbastanza concordi nel definire come data di nascita effetiva dell’avantgarde metal il 1987. In tale data, infatti, una certa band svizzera, i Celtic Frost, dopo aver pubblicato nel 1985 un album che sarà fondamentale per lo sviluppo del metal estremo, To Mega Therion, decidono di cambiare le carte in tavola. Infatti, in quello che è definito il padre fondatore dell’avantgarde metal, ossia Into the Pandemonium, iniziano a farsi strada influenze classiche, industriali e addirittura dance. Ed è così che si fa strada l’originalissima cover del gruppo new wave Wall of Voodoo, Mexican Radio, il tutto condito da chitarre tipicamente metal e da riverberi in doppia cassa in pura tradizione thrash. La vera rivoluzione diventa però palese quando Tristesses de la Lune inizia a farsi strada nelle orecchie dell’ascoltatore. I violini invadono il suono, con un sound quanto più lontano possibile dal metal dei primi brani, e su questi violini si adagia la voce soave di Manü Moan, la quale recita con grandissima espressività il poema omonimo di Baudelaire, tratto dal libro Le Fleurs du Mal. È in questa registrazione che iniziano a farsi evidenti i tratti di questa “nuova musica” introdotta dai Frost, che non è più né puro metal né si avvicina a nessun’altra scena nota. I cori catchy di un capolavoro come I Won’t Dance non fanno che continuare a disorientare l’ascoltatore che tutto si aspettava fuorché questo stranissimo ibrido.
In verità la scena avantgarde metal degli anni ’80 risulta piuttosto povera. Oltre al debutto dei Frost, in America iniziava a muovere i primi passi una band destinata a diventare una delle più peculiari del genere: i Mr. Bungle. Negli anni ’80 non era ancora uscito alcun album della band, ma iniziavano a farsi strada i loro stranissimi demo, che mostravano una sorta di thrash metal con influenze death, ska punk e soprattutto funk, mettendo in mostra tutto l’estro del diplomato bassista Trevor Dunn. Altra caratteristica del gruppo è quella di presentare testi surreali e demenziali.

I primi anni ’90.

Si potrebbe dire che fino alla metà degli anni ’90 la scena non conobbe particolari sviluppi, anche se c’è qualcosa di particolare che vale la pena di segnalare.
Esattamente del 1990 una band svedese si affacciò sul panorama metal, col suo demo …Dawn: sto parlando dei Pan.Thy.Monium, band di ispirazione death metal. Sebbene inizino ad intravedersi le caratteristiche che li avrebbero resi uno degli ensemble più interessanti del genere, ancora avevano molto da dire (basti pensare che Dan Swanö, leader degli Edge of Sanity, che nel progetto suona basso e tastiere, non aveva che 17 anni).
Nel frattempo nel 1991 finalmente i Mr. Bungle riescono a dare alle stampe il loro primo omonimo album. Il metal prodotto dai Bungle è forse quanto più di inclassificabile potessero produrre. Dietro i testi apparentemente quasi non-sense e dal forte surrealismo comico si nasconde una musica difficile, tecnicamente complessa e strutturata in modo solido e composito, come si può vedere ad esempio dalla seconda traccia Slowly Growing Deaf. Forse eccezione alla regola può essere Squeeze Me Macaroni, traccia in cui si è forse più vicini alla classica forma canzone. Per tutto il lavoro possono essere ascoltati sample (ad esempio, dal famoso gioco Super Mario Bros.) curati dall’istrionico vocalist Mike Patton o anche sequenze che mostrano gente che vomita, o orgasmi, o altro. Nel disco sono presenti inoltre due lunghe composizioni, molto “free”, Egg e la conclusiva Dead Goon. In tutto l’album oltre all’estro di Patton (che per l’occasione sfrutta lo pseudonimo Vlad Drac) si evidenzia la bravura del bassista Trevor Dunn, che regala velocissime e tecniche sferzate funky su tutto il disco (che infatti al tempo fu catalogato anche – ed in modo riduttivo – funk metal). In definitiva un lavoro complesso ed ostico dalle molteplici sfaccettature.
Un anno dopo i Pan.Thy.Monium finalmente gettano alle stampe il loro full length di debutto, Dawn of Dreams, dove finalmente le potenzialità degli svedesi vengono fuori prepotentemente. Fin dalla struttura dell’album è possibile capire quanto questa band sia contro ogni forma di cliché o limitazione: sette tracce di durata variabile, tutte chiamate “Untitled”. Fin dall’inizio il sound appare non canonico e molto libero, alternando riff death metal a sfuriate in sax quasi free jazz (sax curato da Dag Swanö, fratello di Dan), il tutto accompagnato dal gutturalissimo growl del vocalist Derelict, rigorosamente senza testi scritti. I “testi” dei Pan.Thy.Monium si compongono solo di versacci insensati: è la negazione stessa del significato del brano, a cui il complesso vuole dare un senso quanto più astratto ed etereo possibile. Il caos è la chiave per comprendere i tre album dei Pan.Thy.Monium. Altro connotato molto particolare è che spesso il riffing ricorda più delle sferzate hard rock che death metal, e questo deriva sicuramente da Dan Swanö (difatti è una sensazione che si avverte anche in Crimson degli Edge of Sanity).
In definitiva, già nel 1992 l’avantgarde metal aveva messo radici nell’immaginario comune, anche se c’era ancora una certa riluttanza nell’accettarlo: il periodo d’oro doveva ancora arrivare.

La scena norvegese e il periodo d’oro dell’avantgarde metal.

Ma il vero territorio dove l’avantgarde metal era destinato ad incontrare la “gloria” è indubbiamente la Norvegia.
Dopo degli EP (My Angel e Constallation), nel 1995, la band norvegese Arcturus finalmente riesce a pubblicare il suo primo album, Asperia Hiems Symfonia. Il gruppo suona un black metal di derivazione scandinava con però molti elementi interessanti, a partire dalla presenza di un tastierista. In verità il primo album non è in assoluto modo etichettabile come avantgarde metal, anche se iniziano ad intravedersi i connotati fondamentali dell’ensemble: arie sinfoniche e magnificenti create dal tastierista Steinar Sverd Johnsen si accompagnano ai riff cattivissimi di chitarra, in puro stile black metal e agli scream algidi di Kristoffer Rygg, che all’epoca ancora adottava lo pseudonimo di Garm. Inoltre il bassista Skoll dipinge linee lente dal gusto quasi psichedelico. Nello stesso anno esce anche Bergtatt, debutto del gruppo norvegese Ulver, band capitanata dal già citato Garm con sempre Skoll al basso e destinata ad essere tra le più citate in tema avantgarde metal ma anche una delle meno inerenti alla scena, avendo registrato effettivamente un solo album che rientra in questa etichetta (di cui si parla più avanti in questo post). Bergtatt consta di un capolavoro black metal con enormi scaglie di folk scandinavo, il tutto condito dalla candida voce pulita di Garm alternata ad altri gelidi scream. Ma ancora l’avantgarde è lontano per questi gruppi.
In verità il primo grande lavoro di avantgarde norvegese, quasi sconosciuto, esce nello stesso anno ed è targato Ved Buens Ende: sto parlando di un grandissimo album chiamato Written in Waters.
In questo disco finalmente iniziano ad intravedersi le possibilità date dalla fusione del black metal con qualcosa di diverso, qualcosa che va al di là delle atmosfere sinfoniche dei primi Arcturus ed anche oltre il folk dei primi Ulver. Nella opener del disco, I Sang for the Swans, un ritmo midtempo che poco ha a che fare col black metal irrompe nelle orecchie dell’ascoltatore, per iniziare un coerente iter che ha come punti saldi il black metal, il progressive metal ed il post-metal. Ed è al terzo filone che appartiene questo primo brano, che procede in un graduale crescendo sul quale più avanti si innesta la voce di Vicotnik, che dal timbro ricorda un Garm quasi ebbro. Per tutto il disco poi si innestano elementi progressivi e solo verso metà lavoro iniziano a sentirsi le tipiche sfuriate black metal con cantato in scream. All’interno del disco si incontrano anche innesti di avanguardia che potrebbero anche ricordare i King Crimson. Insomma, anche se non parliamo ancora di puro avantgarde metal, essendo  ancora ben presente la matrice black.
È necessario però aspettare due anni per l’uscita del capolavoro massimo della scena norvegese e dell’avantgarde metal tutto: gli Arcturus finalmente riescono ad affinare il loro sound ed immergono tutte le loro intuizioni nel monumentale La Masquerade Infernale: influenze classiche e grandissimo istrionismo sono avvertibili già dalla fantastica opener Master of Disguise. Il clima contemporaneamente freddo e teatrale che gli Arcturus fanno trapelare si sparge per tutta la durata del full length, con interventi di violini, violoncelli, sax, flauti e tastiere.
La distorsione delle chitarre e qualche timido intervento di doppia cassa sono forse gli unici timidi ponti che collegano questa perla a sé stante con la parola “metal”. Garm forse, per quanto riguarda il pulito, firma il suo capolavoro con vocalizzi ispirati come non mai e con un livello interpretativo che forse non riuscirà mai ad eguagliare. Sicuramente il capolavoro nel capolavoro è la strumentale Ad Astra, traccia su cui vale la pena spendere due righe in più. L’inizio è fortemente classico, con violini in forte evidenza su cui poi si innesta un debole intervento di flauto. Il tema principale viene così lentamente scandito. Più avanti c’è spazio per interventi di sax ed anche qualche voce in lontananza, fino alla prima variazione del tema, in cui si fa strada anche la batteria in doppia cassa. Dopo aver ripreso il tema principale ed effettuato una seconda variazione, identica alla prima, protagonista assoluto diventa il pianoforte di Johnsen che, con partiture tecnicamente abbastanza semplici crea nuove interessanti divagazioni sul tema, su cui poi si innestano ancora una volta gli archi: siamo al climax del pezzo. Il ritmo prende velocità, lasciando spazio ai chitarristi, che si esibiscono in assolo in puro stile metal, per poi lasciare spazio ad un’ultima, stavolta velocizzata, riproposizione del tema principale. È questo il punto di non ritorno a cui gli Arcturus riescono ad arrivare partendo dal “semplice” metal e potremmo definirla anche la massima espressione dell’avantgarde metal, da cui moltissimi gruppi avrebbero tratto ispirazione.
Intanto un anno prima, in Svezia, anche i Pan.Thy.Monium firmavano il loro capolavoro: Khaooohs and Kon-Fus-Ion. Due lunghi pezzi free, The Battle of Geeheeb (sicuramente il migliore del platter) e Thee-Pherent, ed uno ambient, Behrial. Qui prende forma tutta l’idea astratta e destrutturata che il quintetto aveva in mente fin da Dawn of Dreams: i riff variano in modo disinvolto dal death metal all’hard rock, passando per duetti con tastiere in pura tradizione prog rock, il cantato, rigorosamente improvvisato, passa dal solito gutturalissimo growl a degli acidi scream; il sax, sempre affidato a Dag Swanö, stavolta è molto meno melodico e si dimostra in tutta la sua schizofrenia cacofonica. Sono presenti anche (oltre a Behrial), momenti ambient (come il finale di The Battle of Geeheeb), atti quasi a riportare la tranquillità in mezzo al caos che gli stessi Pan.Thy.Monium hanno creato e di cui forse hanno paura di perdere il controllo.
E hanno fatto bene, visto che non avendo più alcuna limitazione di carattere stilistico è davvero molto semplice perderlo, scivolando in qualcosa di negativo. È questo il destino toccato ai Mr. Bungle nel loro Disco Volante del 1995, dove cacofonia ed avanguardia prendono decisamente il sopravvento, producendo un album acclamato dalla critica, ma in realtà difficilissimo da digerire ed anche da apprezzare.
L’ultimo grande disco della scena norvegese è indubbiamente Theme’s from William Blake’s The Marriage of Heaven and Hell, unico album avantgarde metal degli Ulver e rappresentante un po’ una summa del lavoro passato e futuro della band: sono presenti (poche, a dire il vero) sfuriate metal, sono presenti arpeggi folk, in tradizione Kveldssanger ed anche i primi accenni di elettronica. peculiare degli album dopo questo. Anche la formazione lascia intendere che il lavoro è totalmente in bilico tra passato e futuro, visto che è la prima collaborazione col tastierista Tore Ylwizaker, membro fisso insieme a Garm degli Ulver elettronici, ed è l’ultima con il bassista Skoll, ultimo rimanente degli Ulver originali. Il disco, che riprende interamente il testo del capolavoro blakiano, si articola su due dischi e 27 “plates”, per un totale di 19 pezzi. Iniziano ad intravedersi in questo capolavoro anche parti recitate/parlate che faranno la fortuna dei nuovi Ulver.

L’avantgarde metal nel nuovo millennio

Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000 il genere ha visto fiorire una grande varietà di band in tutto il mondo dai molteplici connotati stilistici. Vanno citati ad esempio gli americani maudlin of the Well, che propongono un ispirato mix di death metal, fusion, rock progressivo e post-rock (consigliamo l’ascolto dell’album Bath). Oppure i giapponesi Sigh, che partiti da un black metal di fortissima matrice norvegese hanno evoluto il loro sound in un avantgarde colmo di spunti sinfonici e progressivi (consigliamo Imaginary Soniscape).
Anche dall’Australia provengono gli Alchemist i quali, dopo aver iniziato con un avantgarde metal di matrice progressivo-psichedelica hanno virato verso un progressive metal più o meno interessante.
Altra band, come i Mr. Bungle, che è stata incapace di trattenersi, è stato il supergruppo dei Fantomas che, dopo un esordio più o meno pacato ma già molto schizoide, passa alla follia pura di Delirium Còrdia, un’unica monotraccia da 76 minuti fatta di pura cacofonia e strumenti del tutto casuali. Qui si perde la mano di ciò che si sta facendo, sono i rischi del genere.
Andrebbero ricordate altre band come per esempio gli schizzatissimi Shining con il loro Blackjazz oppure l’enorme band The Ocean col monumentale Precambrian. Infine ricordiamo i nostrani In Tormentata Quiete, che performano un interessante avantgarde di matrice black.
Sono due i massimi capolavori dell’avantgarde metal post-2000: Sing Along Songs for the Damned & Delirious dei Diablo Swing Orchestra e In a Flesh Aquarium degli Unexpect.
Nel primo operetta e metal entrano in contatto in un mix esplosivo di tenori, soprano e scream metal, il tutto supportato da una produzione cristallina, da tracce in qualche modo regolari e da musicisti molto esperti.
Nel secondo avviene l’esasperazione dei connotati schizoidi offerti da Pan.Thy.Monium prima e da Shining poi, riuscendo a conciliare la libertà dei primi e la pesantezza dei secondi, con tracce molto complesse che attingono, oltre che al metal estremo e al jazz, anche all’avanguardia più pura e alla rumoristica.
Infine segnalo il già consigliato in questo blog L’Ordure à l’État Pure dei Peste Noire, dove black metal, techno e folklore francese convivono in un’opera che lancia l’ascoltatore direttamente nel XIX secolo.

Blaze.


Peste Noire-L’Ordure à l’État Pur

Artista: Peste Noire

Album: L’Ordure à l’État Pur

Genere: Avantgarde Metal/Black Metal

Anno di Pubblicazione: 2011

Etichetta: La Mesnie Herlequin

In verità l’etichetta “Black Metal” non è altro che uno scrupolo di chi sta scrivendo questo post. Famine, vocalist, chitarrista e leader indiscusso della band  di punta della scena black francese, i Peste Noire è, infatti, approdato ad un lido che punta ben oltre il black metal e che ormai può dirsi a tutti gli effetti avantgarde. La produzione appare più pulita, i riff più intelligenti e con essi il drumming. Gli unici elementi che possono ancora donare lontani echi black sono alcune sezioni particolarmente veloci (ma comunque nulla a che vedere con le sfuriate in blast beat tipiche dei cliché del genere) e le parti vocali, interamente in scream (anche se è doveroso sottolineare che si tratta di uno scream molto meno tagliente e più espressivo della maggioranza dei gruppi black metal), che però spesso e volentieri lascia spazio ad un cantato sporco vicino quasi ai Venom, e per una traccia è presente anche una voce femminile molto godibile. Ovviamente sono altri gli elementi che rendono questo album “avantgarde” a tutti gli effetti. In effetti elementi avanguardistici nel lavoro non mancano, a partire dai brani, completamente stravolti e stracolmi di sezioni. Nel primo brano della tracklist (Casse, Pêches, Fractures et Traditions), ad esempio, appare evidente e perfetta la coesione tra “black” metal e folklore del XIX secolo: verso metà brano, infatti, irrompe uno stacco strumentale fatto di trombe e fisarmoniche, su cui si adagia la voce sporca ma espressiva di Famine, dando l’idea di essere stati catapultati nella Parigi del 1800. Chiaramente, le sorprese non terminano qui: tanto per fare un ultimo esempio, Cochon Carotte et les Sœurs Crotte presenta invece ritmiche vicine all’industrial e più avanti all’elettronica davvero estremamente interessanti, il tutto ancora una volta coeso perfettamente al resto del brano, più prettamente metal ma comunque non classico.
Un album da provare assolutamente, sicuramente, fino a questo momento, la migliore uscita del 2011.

Voto: 9/10

Blaze.


Dead Link A Scarcity of Miracles

Mi sono accorto solo di recente che il link di download ad A Scarcity of Miracles dell’A King Crimson ProjeKct era stato cancellato per aver violato i termini di Mediafire.
Rockstadium.com si scusa per il disservizio e fornisce un nuovo link, che ora andrà a sostituire il vecchio anche nella sidebar e nel post di dovere.

link soppressi fino a data da destinarsi
11/04/2012